Trento, 25 luglio 2014. – nota Libri ricevuti. Vanità dei rifornimenti voluti da Hitler per la regione nordafricana ormai virtualmente già perduta, amarezza per l’inutile perdita della nave, rimpianto per la donna amata uccisa dalle bombe del nemico, insensatezza di battaglie cruente contro un avversario che ci onora, e assurdità per tanti lutti e tanto dolore che dopo la fine delle ostilità rimarranno senza costrutto alcuno. Nel mio articolo “8 settembre 1943: si cambiano le alleanze”, 1° della serie “Per una storia della seconda guerra mondiale riveduta e corretta”, citavo nel secondo capoverso la torpediniera “Tifone”, ultima nave nel 1943 ad essere inviata dall’Italia in Tunisia. La storia di questa silurante dalla vita breve, entrata in servizio soltanto l’anno precedente e andata perduta appena giunta davanti al porto di Tunisi, venne narrata dal sottocapo Alberto Ferrari, facente parte dell’equipaggio, nel libro “L’ultima torpediniera per Tunisi” (ed. Studio Tesi, San Daniele del Friuli, giugno 1980), e da chi firma il presente articolo sulla terza pagina di “il Giornale di Vicenza” e “l’Arena” di Verona il 25 giugno 1981. Successivamente, l’autore del libro, che l’aveva dato alle stampe sotto pseudonimo (Alberto Arcene), si presentò al giornalista recandosi da Padova, dove risiedeva, a Verona: e da quel primo incontro nacque un’amicizia, che fruttò altre notizie e confidenze, e che perdurò sino alla scomparsa dello scrittore. Impostata nel giugno 1941 – cioè a guerra già iniziata da un anno, – e varata il 31 marzo 1942 – credo nei Cantieri riuniti dell’Adriatico in Monfalcone perché il completamento ebbe poi luogo in Trieste – , la “Tifone” – che non faceva parte d’alcuna classe di unità preesistenti – dislocava, secondo i dati editoriali pubblicati in ultima di copertina (dove viene usato erroneamente il termine «stazza», che è la capacità di carico delle navi mercantili) 1100 tonnellate (1200 secondo quanto dichiarato dall’autore del libro): comunque quanto un cacciatorpediniere (il dislocamento delle torpediniere era mediamente sulle 600 tonnellate), e di fatto era ufficialmente classificata «avviso scorta», così come i confratelli “Ciclone”, “Fortunale” e “Uragano” (delle quattro «tempeste», tre periranno e la superstite, a guerra finita, sarà preda bellica dell’Unione sovietica). Altre classi di unità nuove, pure classificate avvisi scorta, erano intestate a navi “Aliseo”, “Animoso” e “Ardente” (non ho mai capito questo volere dar nomi astratti ad unità da guerra, con tanti eroi del mare che ci s’attenderebbe venissero onorati, ndc.). Lunga 90 metri, con un equipaggio di 170 uomini di cui 7 ufficiali, velocità massima 25 nodi, nave “Tifone” era armata con due cannoni da 100 mm., otto mitragliere, quattro tubi lanciasiluri e sei lanciabombe. Ignorata dagli “Almanacchi navali” di quegli anni per ragioni di segreto militare, la storiografia ufficiale ne fa il nome la prima volta sotto la data 17 marzo 1943, quando nel tragitto da Taranto a Messina, insieme con altre unità in missione di scorta a due motonavi, venne attaccata da aerosiluranti. Ma nave “Tifone” aveva compiuto la prima azione di guerra sin dal giugno dell’anno precedente, quando durante le prove di macchina nel golfo di Trieste aveva attaccato con bombe di profondità un sommergibile inglese. Nel settembre era rimasta danneggiata per l’esplosione di una mina, con perdita di vite umane. Nel gennaio e febbraio era stata addetta a rastrelli antisom nel mare Jonio. Gli ultimi suoi cento giorni li trascorse facendo parte della scorta ai convogli di rifornimenti per la Tunisia, cocciutamente e insensatamente voluti da Hitler. Andò perduta il 7 maggio 1943 nel golfo di Tunisi per autoaffondamento deciso dal comandante, capitano di corvetta Stefano Baccarini, in seguito a gravi irreparabili danni subiti il giorno prima per bombardamento aereo. Era partita da Trapani per l’ultima sua missione il giorno 3 scortando la motonave “Belluno”: furono le ultime navi italiane per Tunisi. Altri tre piccoli convogli salparono il 3, il 4 e il 7 rispettivamente da Pantelleria, Napoli e Trapani, ma non giunsero a destinazione o, giuntivi, furono distrutti prima che potessero effettuare lo scarico dei rifornimenti. I superstiti di nave “Tifone” rimpatriarono fortunosamente sulla nave ospedale “Virgilio”. Come accade sovente agli uomini di mare che, deposta l’incerata, pongono mano alla penna, il libro di Alberto Ferrari, amico che ricordo con affetto profondo e non senza commozione e rimpianto, è scritto in maniera spigliata, e si fa leggere con gusto: anche se la realtà della tragedia pone un freno al piacere delle avventure. Le missioni di guerra si alternano alle licenze e alle franchigie, sì che il racconto si dipana fra il mare e le vacanze in terra, fra la casa navigante e quella dove qualcuno sempre in ansia attende notizie del marinaio, fra l’amore per la nave, costante e immutabile, e altri amori, fuggevoli e variabili: ma è commosso il ricordo, dopo tanti decenni, d’una ragazza perita sotto le bombe liberatrici in Napoli, alla cui memoria si può dire che il volume sia dedicato. Il libro non è solo un saggio storico, ma neanche un romanzo: narra vicende vere non solo storiche ma anche cronachistiche. Le cronache delle avventure a terra suggeriscono di definirlo “l’antigiornale di bordo” per le vicende personali dei personaggi, raccontate in modo sempre avvincente e spiritoso tale da coinvolgere l’interesse e l’attenzione di tutti i lettori pur se estranei ai protagonisti e ai fatti: narrati da uno il cui posto era nelle sentine della nave, tra ansie indicibili per le poche speranze di sopravvivenza nel caso che un siluro avesse raggiunto la carena. Le situazioni divertenti e le battute spassose («Vieni in marina, imparerai a nuotare… ») fanno da contrappunto ad episodî di rispetto: come quando, tutta la nave in giubilo per aver distrutto un sommergibile, un sergente torpediniere, il più brigante di bordo, ritto sull’attenti, mano alla visiera, rende gli onori ai marinai nemici che stanno morendo. Anche gli inglesi rendono omaggio all’avversario sfortunato e, dopo che il “Da Mosto” è saltato in aria, gli incrociatori e i caccia che lo hanno distrutto defilano a lento moto con gli equipaggi schierati in coperta nel punto dove l’unità italiana è scomparsa. Dure parole competono invece agli statunitensi i cui aerei bombardano per tre volte in un solo giorno la nave ospedale “Principessa Giovanna” in missione di soccorso, causando cinquantaquattro morti e cinquantadue feriti tra i naufraghi già recuperati: ma, com’è noto e come non possiamo che ripetere, una Nürnberg c’è stata solo per gli sconfitti. Non manca un attacco alla “Tifone” da parte di aerei nazionali, e il libro si chiude con pagine di amarezza: per la perdita della nave, per la scomparsa della donna amata che non ha avuto il tempo di mettere al mondo un erede, e per la vanità totale e assoluta di tanto generale, immenso olocausto.
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