Trento, 22 giugno 2014. –* Lettera aperta al presidente Draghi e al nuovo Parlamento Europeo. Ho lasciato l’Italia tre anni fa, quando lo Stivale, con il resto del continente, si dimenava alla ricerca di una via d’uscita da una crisi economica che fu prima chiamata finanziaria, poi di debito, poi valutaria, per mascherare l’incapacità di comprendere la natura più globalmente sistemica della depressione in corso. Da allora, purtroppo, niente è cambiato nell’approccio delle autorità politico-monetarie nei confronti della crisi. In particolare, mi stupisce l’atteggiamento del presidente della BCE, Mario Draghi: non solo egli non è in grado di cogliere come la politica del credito facile, iniziata dopo la bolla della new economy nel 2001, sia all’origine della crisi esplosa nel 2007; non solo, inoltre, persiste nel voler ‘curare’ la crisi con la stessa politica monetaria che l’ha generata; ma, addirittura, cosa ben più grave, Draghi sembra non realizzare che ormai otto anni di quantitative easing non hanno portato alcun beneficio all’asfittica economia europea e al tasso d’occupazione. Anche il giustificare il nuovo abbassamento dei tassi di riferimento con un famigerato rischio deflazione (tutti sembrano impauriti dalla deflazione ma nessuno ha sinora spiegato perché essa sia da temere, quando invece sarebbe la naturale manifestazione del necessario processo di pulizia post-fake boom) appare più come la classica foglia di fico che un provvedimento realmente giustificato dalle circostanze. Ora, dopo le elezioni europee l’Europa è alla ricerca di una nuova identità. Movimenti euroscettici acquisiscono consensi, e non del tutto senza ragioni. Da anni l’Europa ha smesso di rappresentare speranze e ideali, per trasformarsi in un centro burocratico di regolamentazione della vita quotidiana. Essa non crede nel libero mercato ma nella regolamentazione. Non intende rappresentare né cittadini né popoli. Nel mio ultimo libro, Economica Fenice, ho spiegato perché oggi sarebbe un errore l’uscita dall’Euro. Ma non è su questo punto che vorrei soffermarmi. Piuttosto, vorrei cogliere, attraverso la mia esperienza asiatica (dirigo gli affari in Asia per una multinazionale olandese), alcuni spunti interessanti che ci possano far realizzare che il Vecchio Continente non è finito: una speranza c’ è, ma per divenire realtà essa necessita di una radicale inversione di rotta nella politica economico-monetaria. Anzitutto, sarà bene smetterla di pensare sempre e solo ai tassi di interesse (e agli spread), che sembrano diventati manie. Ammesso e non concesso di credere all’idea che bassi tassi di interesse possano stimolare l’attività economica, Draghi dovrebbe rendersi conto che i tassi applicati dalle banche sono tutt’altro che bassi. Per cui l’effetto dei suoi tassi negativi sull’economia reale è tutt’altro che positivo. Detto questo, da dove ripartire? Lavorando per una compagnia europea in Asia, vivendo il mio quotidiano in Asia e insegnando a studenti universitari asiatici posso concludere, senza dubbi, quanto segue: in Europa resiste una cultura del lavoro, del ‘fare le cose bene’, del fornire prodotti e servizi che funzionino davvero al meglio e non ‘più o meno’ o ‘in modo accettabile’. Questa mentalità in Asia semplicemente non c’è. L’ultimo grosso affare che sto trattando coinvolge un grosso gruppo thailandese che sta pianificando ingenti investimenti in Cina; la società in gestione sceglierà il suo fornitore di riferimento tra otto compagnie, tutte europee (tre italiane in gara)! E questo dunque è il primo fattore positivo: cultura del lavoro e superiorità tecnica. Non v’è da temere la concorrenza cinese finché non si rinuncia all’innovazione: i cinesi copiano, lo fanno male e non sono in grado di inventare (è sui attività ad alto contenuto tecnologico che dovremmo vincere la competizione, non nella produzione di t-shirt). Il processo di sviluppo e innovazione parte ancora dalla vecchia Europa. Secondo punto: la produttività. Basta vivere in Asia pochi mesi per cogliere la superiore scaltrezza e preparazione del lavoratore medio europeo rispetto a quello asiatico, il suo essere maggiormente un problem-solver rispetto ad un esecutore di ordini. Un bar che in Italia sarebbe gestito da due persone qui necessita di otto-dieci camerieri. Se è vero che in Asia i salari sono più bassi, è altrettanto vero che la quantità di lavoratori richiesti è superiore e, inoltre, gli stipendi stanno galoppando verso livelli europei (un ricercatore malese guadagna già di più di un ricercatore italiano). Produttività, dunque. Creatività, cultura del lavoro, innovazione e produttività sono le chiavi che possono rilanciare l’economia europea sullo scenario internazionale. Cosa invece tarpa le ali a tale processo di rilancio? Gli Stati e l’Europa burocratica: in una parola, le tasse. La bassa pressione fiscale è oggi davvero l’unico vantaggio che l’Asia ha rispetto all’Europa. L’unico gesto d’imperio che Draghi e il nuovo Parlamento Europeo dovrebbero avanzare è imporre agli Stati membri un’aliquota unica per le imprese inferiore al 30 per cento e una tassazione del lavoro inferiore al 25 per cento. Il livello opprimente della pressione fiscale, invece, impedisce agli Stati europei di liberare appieno la propria competitività. Oggi in Europa si lavora per lo Stato. Questa semplice osservazione è già di per sé un ostacolo all’emergere degli spiriti imprenditoriali e innovativi enfatizzati da Schumpeter. Non perché i tassi di interesse non siano sufficientemente bassi, ma perché i tassi di profitto sono neutralizzati da assurde aliquote fiscali. Il profitto è il motore dello sviluppo, non il tasso di interesse. L’Europa è come un’aquila dalle ali legate. Il potenziale aspetta solo di essere liberato. Con l’abbattimento della pressione fiscale si verificherebbe un fenomeno straordinario: capitali accumulati che giacciono oziosi in Asia in attesa di avventure speculative, si riverserebbero in Europa, attirati da crescenti aspettative di profitto, oggi frustrate dalla pressione fiscale. Gli speculatori asiatici sarebbero ben felici di investire le loro risorse nel Vecchio Continente, dove incontrerebbero capitale umano e tecnologico in grado di valorizzarle, se le attese di profitto fossero superiori ai rendimenti finanziari percepiti in loco. E tale possibilità non è irrealistica. Necessita, peraltro, di una politica che creda ancora nei miracoli. *Senior Fellow, Institute for Democracy and Economic Affairs (IDEAS), Kuala Lumpur, Malaysia. Visiting Professor, INTI International College Subang, Subang Jaya, Malaysia
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