Trento, 19 dicembre 2014. – Alda Merini è stata in manicomio, «sopporta pene indicibili per regalare la propria parola agli altri» (L’anima innamorata, Frassinelli, 2000, p. 114), è un pezzo debole e non forte del sistema, alla fine si è imposta o è stata imposta. Se si è imposta bene o male, più o meno retoricamente, giustamente o no, ora non importa: davvero, non importa. Il grande successo artistico nel Paese barbaro – l’Italia – non è mai un successo del tutto artistico, e ci mancherebbe altro. Il successo pieno non ha radici molto mistiche, e perché dovrebbe averle? In nome di una purezza? Qui? Anche Melina Riccio è passata dalla psichiatria ad una forma di successo, ma è un successo mezzo pieno e mezzo vuoto: Melina non ha avuto la televisione e non ha avuto uno sponsor, allora ha trasformato lo spazio in una tavola, per scriverci sopra. La strada è sempre una strada possibile per apparire, no? La strada – tutta l’Italia, per Melina – è una televisione virtuale e vitale: dilatarsi con uno stile facile, farsi vedere nella distanza, molte volte e da molti. Io documento quello che vedo, perché le forme di successo sono pane e studio [la bocca e la mente vogliono sempre godere, e voi lo sapete]. E – per un documentarista dell’ex-umanesimo – quello che si mostra è solo quello che gli serve, finché vuole vederlo. Voi lo capite. Il documentarista è un osservatore tranquillo e brutale, poi lascia la presa. La salvezza mentale è così: lasciare il fatto dove sta, anche se è vincente, e anche se è dolcemente nerd. Poi si va a lavorare, sul serio. Ho voluto un idillio; no, un epillio, un epos piccolino, anch’io, ma impuro e duro, e in una Milano abbastanza fredda.
]]>