Trento, 2 marzo 2016. – Chi può capire The Wolfpack? Lo può capire chi non è esperto di resistenze sociali. Chi conosce il significato della solitudine e della famiglia. Lo può capire un certo tipo di artista, quello all’antica: il solitario e l’asociale. Dovreste cercate e vedere The Wolfpack, anche se non foste nati per capirlo. Allora vedrete che cosa significa FARE arte, nel modo più analogico e disperato. È come suonare Schubert in un campo di concentramento o leggere Proust nel fondo di una miniera. Come rifare – e questo non è un esempio – Le Iene di Tarantino, battuta per battuta, in un appartamento, perché i ragazzi non devono uscire e il papy non vuole, e New York è pericolosa e a scuola non si deve andare. “Capitava che uscissimo nove volte in un anno, qualche volta una sola, e un anno in particolare non siamo usciti proprio”. Riscrivere la sceneggiatura delle Iene, battuta per battuta, per recitarla in casa, non ha nessun senso, ma si fa. Non c’è alcun pubblico, al di fuori degli esecutori materiali, ma si fa. In fondo, recitare è una consolazione ripetibile, come una masturbazione che non si scolma più. Si fa e si ripete.Il problema non è evitare la noia, ma produrre la gioia; e la gioia, per sei adolescenti maschi, reclusi, è sesso. Se voglio la gioia me la prendo, ma come? Tra fratelli non possiamo fare sesso. Il modo si trova e poi deve essere ripetuto, perché godere una volta è una tortura; bisogna godere più volte e si può approfittare del numero di persone. Quanti siamo, qua dentro? Siamo sei e siamo tanti. Bene, diamoci da fare e ora si gode. Tarantino è violento e i sei fratelli guardano anche film dell’orrore. Il problema non è ignorare la violenza di per sé: per esempio, rifanno la scena dell’orecchio tagliato nelle Iene. L’importante – per il papy gnostico – è che i figli non conoscano la violenza pratica, cioè il mondo. Il mondo è la violenza e la violenza è il mondo. Ma la violenza del cinema va bene, e il papy deve aver capito molto presto che la rappresentazione registica è solo il sogno autoritario di un regista, quindi non è vera; mentre la coltellata del mondo, là fuori, non ha alcun regista, per cui è caotica. A sua volta, il papy diventa regista della vita dei figli, ma non delle loro rappresentazioni domestiche. Il suo assolutismo da “guardiano” e “proprietario terriero” non ha sbavature. Probabilmente il papy sa che nello showbiz la recitazione è un lavoro serio; fuori dallo showbiz, è solo una bambinata, e non ha nulla in contrario. Che cosa sarà dei fratelli Angulo, dopo? Diventeranno normali? Non credo. Il loro occhi hanno una purezza da agnelli, quella di chi non ha mai fatto sesso, e se lo fa è tardi e allora crede di rubare il sesso ai normali. Diventeranno artisti? Forse, ma con lo stigma sociale dei diversi. Perché ora il mondo li conosce attraverso un documentario. E i documentari hanno questo maledetto stile, ormai: rappresentare il freak, il derelitto, la vittima, il diverso e il sopravvissuto. Da qui non si sfugge: chi ti rappresenta – come la regista del documentario – ti ha glorificato, da una parte; e dall’altra ti ha marchiato per sempre (poi ti lascia, per rappresentare altri infelici). Ora è morto Enzo Motta, il protagonista della Bocca del lupo di Pietro Marcello. Gli avevano fatto credere quello che credeva anche lui, cioè di essere Clint Eastwood, poi fu lasciato lì, a girare per il mondo. Si convinse di poter fare da solo Il ritorno della Bocca del lupo, come regista. Ogni tanto appariva un piccolo manifesto, qua e là. Poi nulla, e poi la morte vera e propria. Io temo per i fratelli Angulo. Ora non dovranno sopravvivere alla privazione, ma alla luce accesa su una privazione. Un premio in un festival può illudere che la mancanza sia una pienezza paradossale, ma non è così. La luce si spegnerà molto prima della morte, e Il ritorno della Bocca del lupo non si fa, come non si farà un Ritorno dei fratelli Angulo. Non c’è ritorno, e allora bisogna trovare la salute. Sì, ma che cosa è la salute?
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