Trento, 12 novembre 2013. – Riconosco il «morso oscuro di tarantola», o di cane, perché fa male o ha degli effetti. La causa prima è il morso e io sono l’effetto. Se non conosco la teofania, proverò la zoofania come cosa acuminata. Una carne subisce e io so: così provo e conosco la prova. Allora riconosco il morso, e riconosco il mio corpo e la possibilità di morire. Anche il bacio si riconosce: viene da una presenza fraterna o materna o prostituita, o di amici, anche. Ecco: se non conosco la teofania, proverò l’antropofania. Così riconosco il bacio, il mio corpo e la possibilità di godere, anche dominato (ma questo lo decido io). L’enfasi aspetta di rifarsi nella realtà, dove si brucia bene e si affina, sembra. I significati sono volgari e l’io è piccolo: ama concepire i pensieri, come i figli che avrà, mediamente. L’io fragile si lascia concepire senza pace, riceve e impara, e sostiene l’impatto, sonoro e invisibile: «Dio nessuno l’ha mai visto», e nemmeno un suono si vede. Sento i suoni in un verso che dice «Tutto il mondo è vedovo». Ho riconosciuto il morso dal dolore, il bacio dal piacere, il suono dall’esaltazione, che è inconcepibile. Dall’effetto riconosco il morso, il bacio, il suono, la poesia: dunque uso me come strumento – strumento vocale – cioè come schiavo sottomesso, ma non devoto, e nemmeno perfetto, né santo. Non c’è Stato in Dickinson, non c’è Potere in Mesa, non c’è Spiegazione in Bene. Ora io non voglio (non posso, e non potrei) collaborare con Artaud, non voglio collaborare con Mesa (non lo rifarei), non voglio collaborare con Rosselli (non si può, perché – viva o morta – è sola e «la forma è una»). Io non sarò la sedia di Coltrane. A questo punto, nel quarantesimo anno – ma anche prima – cerco la Maestà, non l’Educazione, civile o civica. Non voglio che Emily ed Amelia mi educhino; in ogni caso, non sono educatrici di niente, se non di una santità feroce. Così non si costruisce la città nuova, ma l’uomo nuovo può nascere. Non si sa che cosa significhi; in realtà non si sa a che cosa serva. Non è un problema: è una parola, e basta. I poeti famosi danno i fatti, ma non le parole. Benedetti, Damiani, De Angelis, Rondoni mi offrono amicizia, cioè la loro complicità: le loro storie di ora, che io rispetto. Ma io non voglio questa libertà di amici. Non voglio la loro morbidezza, da amico ad amico. Voglio la perfezione nell’intensità del morso e della bocca. In mancanza di scritti così – ma questi scritti ci sono ancora – preferirò il parco e il palco – e il molto, non il poco – della vita, in ogni caso. E ora disprezzo la mia tristezza antica e le mie tentazioni di normalità. Detesto e disprezzo l’idea che la mia stessa poesia fosse un atto monastico. Senza Regola non c’è monaco; e io, senza regola, non sono – e non ero – un monaco. Il corpo dirompente deve invadere il corpo prensile e cavo. Ne parla Valère Novarina. E tu «mi hai sedotto, e io mi sono lasciato sedurre», e la mente generale vuole l’obbligo – su cui si fonda una Chiesa visibile, che legifera –, ma non vuole credere all’assurdo. Voglio l’assurdo e posso riconoscerlo. Quando seduce, è già riconosciuto. Il dono della lingua è il tono della lingua ed è il suono del lingam. La lingua è un angue: è il serpente fatto bene e morde. La grotta nel corpo non è passiva e per questo prende. Non è più questione di programmi, e «in Italia la poesia contemporanea è in linea di massima contemporanea al 1940». L’ha detto un poeta, e quel poeta è un uomo d’onore. La questione è veramente un’altra: chi resiste all’onda grossa, nient’altro. Ho messo il piede nell’amorosa pània e tutto è rimasto, anche meglio di prima. Nessun dolore; stranamente una misura, e io non ci credevo più. Per essere bisogna essere in due, o no? Sì. La lingua didascalica langue. La poesia è un’altra cosa. Questa prosa non parla di poesia. La poesia non è prosa.
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