Trento, 8 dicembre 2013. – Nella Breve storia delle religioni Ambrogio Donini accenna ai movimenti di ritorno alle origini. Dice che non esiste mai un ritorno alle origini, se non poeticamente. Così Francesco d’Assisi non è un rinnovatore, ma un inventore: come Ignazio di Loyola e il povero Davide Lazzaretti, il nostro Messia ottocentesco. Francesco non abolisce uno iota della Chiesa: la completa, se ne fa cooptare e diventa il Francesco sereno di Giotto, ma non la abolisce. La Legge rinasce sempre, e il motivo è semplice: la fine del mondo è argomento di fede, ma non accade ancora. È scritto che la fine sarà quando Cristo «avrà riconsegnato il regno al suo Dio e Padre, quando avrà ridotto a nulla ogni governo e ogni autorità e potenza» (Prima lettera ai Corinti, 15,24); dopo, Cristo vincerà anche la morte, che evidentemente è collegata al potere. Cristo non l’ha ancora fatto, e se il mondo continua, il mondo – governo autorità potenza – si dà una Legge, da perfezionare caso per caso. La morte continua, appunto. Il Concilio di Trento c’entra con le origini, reali o poetiche? No. Cristo è altrove. Il Concilio è per la Chiesa, e fissa la differenza tra il Sacro e la Religione, tra lo Spirito e la Regola. Il cuore fedele e semplice non c’entra. La mistica è privata e irregolare, soprattutto nella sua variante speculativa; la religione è un’altra cosa: può anche non essere religione di Stato, ma interessa molte menti. Se è ramificata, deve regolarsi come una politica. A questo punto, che fare? Si stabiliscono regole, si conferma il primato del Papa, si istituisce un minimo di decoro intellettuale del clero. Si poteva fare altro? No. Contro Lutero si poteva rifondare una Chiesa della mistica renana? Impossibile: troppo individuale. Dolciniana? Mai. Francescana? Bello, ma secondo quale francescanesimo? L’Italia ha avuto quello che le serviva: tra le pressioni romane e le pressioni imperiali, si è permessa quello che le andava bene. Qui non serve troppa libertà, ma un codice. I poteri temono solo l’eresia e le donne, come la morte. E il codice è nato, tutto qui. Uno dei càrdini della cultura italiana è la Storia d’Italia di Indro Montanelli (con Roberto Gervaso, per gli anni 1250-1600). Càrdini, sì, con ironia e senza ironia. Qui la cultura media è tutto: in fondo, è l’unica cultura che esprima l’Italia. È la cultura media che applaude il Dante di Benigni, tanto per dire. Montanelli e Gervaso scrivono che il Concilio di Trento ha «negato il problema di coscienza, abolendo la coscienza». E qui si sente la mano di Montanelli: «Ci sono tutte le premesse, che verranno puntualmente mantenute, di un conformismo senza scampi, piatto e soffocante, in cui non possono incubare che codardia e ipocrisia. Sotto questo sudario si forma il nuovo italiano». Sì e no. Perché l’italiano si era già formato. E il poema nazionale che ci siamo scelti è la Comedìa di Dante, non a caso: un testo di finzione, ma anche l’opera di un legislatore religioso, ma anche una visione ultraterrena, ma anche un giudizio sul presente, ma anche un romanzo (e come romanzo non può essere contraddetto). Un’opera autoritaria, e ovviamente scritta con il dito di Dio (Dio in terra: Dante). Cecco d’Ascoli ne ride, contesta il parlare adorno di Dante, e pensa di reagire con un poema diverso: «Acerba etas», l’«età acerba» o anche l’«età stridula». E Cecco gracchia a tutti gli effetti: vorrebbe essere monolitico, e persino culturale senza fiction. Ma l’Italia si è scelta, una volta per tutto, uno strano sincretismo multicolore: ideologia privata e ambizione pubblica, osservanza religiosa e invenzione del sacro, mistica e politica, e tutto insieme. Nemmeno mettendo un Papa all’Inferno si abolisce la Chiesa, in Italia; e non si rappresenta un Papa dannato per condannare la Chiesa, non del tutto: è una buona immagine televisiva, e funziona. Dante, furbo, ha capito il segreto: il Paese non si cambia con opere puramente intellettuali, cioè con opere prive di autorità, autoproclamata. Il Cecco dissonante pensa il contrario, e fallisce. Per ora, e da secoli, l’Italia ha bisogno di impurità intellettuali, di mediazioni tra cose sataniche – come il Padrone della Televisione nell’Histoire du soldat di Pasolini (e tutta la vita di Pasolini) – e cose cristiche, di carismi da seguire, e anche di illusioni. Qui niente viene abbattuto del tutto, mai, tranne gli eretici, quelli veri. Giovanni Giuriati scrisse che non pensava di passare dalla Marcia su Roma al cappello a cilindro in un paio di giorni. Persino Mussolini ha mediato, come dice ad Emil Ludwig nel 1932: «O lo Stato ignora la Chiesa, oppure regola con essa le cose comuni». Appunto: le hanno regolate, punto e basta. Si media e si regola sempre, conciliando il direttore con il dittatore, il poema del lieto fine con un minimo di rigore: basta non essere eretici, perché allora – solo allora – cade il sangue. E alle origini non si torna mai, perché non ci sono origini. Di volta in volta, si fanno imposizioni, un po’ tradizionali e un po’ creative. Tutto questo perché non viene la fine del mondo. Prendiamo Paolo per buono, alla lettera: Cristo, tornando, riduce a nulla «ogni governo e ogni autorità e potenza». Concilio compreso? Chi lo sa. E se la Chiesa si salva? Allora capiremo che era la sposa di Cristo, non un governo come gli altri. Ma solo allora.
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