Prec. 1 of 3 Succ. Trento, 7 gennaio 2014. – L’inizio è in lingua di poesia popolare: “Bruci la città | e crolli il grattacielo! | Rimani tu da solo | nudo sul mio letto”. È una canzone di Irene Grandi e dice tutto, davvero. Dice l’essenziale, e l’essenziale si spiega sùbito. È questo: i Grandi Fatti della Camera – o della Camerata – sono ardenti, ma informali, quindi sono fuori della storia. Sono fatti così, fin dall’inizio: accadono senza peso, con dolcezza. È per questo che fu detto: fate l’amore e non fate la guerra. La guerra crea la storia – e la storia è la storia della violenza pubblica – e l’amore non si scorda mai (l’importante è farlo sempre come hai voglia tu: lo dice un’altra poesia popolare). La storia privata è la vera magistra vitae, per tutti e singolarmente. L’altra storia non è così: è roba per maestri e allievi, e c’è anche una pagina Facebook apposta: “Fate l’amore non fate la guerra che poi mi tocca studiarla”. Ora la camera è in una strana pace. La città brucia fuori e il grattacielo crolla. C’è Armageddon e c’è anche la nostra storia, nella camera. Non si fa notizia, adesso, e nessuno ne darà notizia per noi. Chi c’è, c’è, sempre: i due possono dirlo, se vogliono. E possono anche volerlo, ma la comunicazione sulla Camera è più poesia che notizia. Oppure sarà una poesia cantata. Speriamo che sia bella – e anche sincera –, se no a che serve? Chi canta prega due volte, si dice. E il canto si spiega con un’altra luce, meno riflessa e meno mediata. E la voce moltiplica la voce in mille. E poi una frase del Piccolo karma di Carlo Coccioli, per fare il mosaico luminoso o il sentiero dorato, in due: “Se dovessi fare un lungo viaggio con una giovane persona, e avessi bisogno di sapere se me ne possa fidare, dovrei chiederle due cose: di dirmi chi è il suo dio, e di permettermi, non fosse che un momento, di vederla nuda”. Solo così ci si può fidare. Dimmi chi è il tuo dio, e dirò a me – non a te – chi sei; mostrati senza schermi, “non fosse che per un momento”, con il doppio pudore di chi appare e di chi guarda – è un mostrarsi senza mani addosso, ed è simbolico e simbiotico, “non fosse che per un momento” – e mi dirò, ma non dirò a te, che demone di relazione abbiamo creato. Spògliati, devo capire se posso fidarmi. Fantastico. E allora potrò fidarmi. Grandissimo Coccioli, ancora una volta. Poi il sentiero dorato torna indietro di una generazione. C’è Pavese, in una delle ultime apparizioni. Scrive il 25 marzo 1950, il giorno dell’Incarnazione (il piccolo Gesù nascerà nove mesi dopo, come tutti i figli del mondo, il 25 dicembre); e il giorno dell’incarnazione viene il pensiero della carne debolissima, così: “Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”. In principio c’è la nudità, e la climax che inizia dal nudo porta alla miseria (non avere, non possedere), all’inermità (non avere armi) e al nulla (non essere). È così, forse, e può anche non essere così. Meglio: non deve proprio essere così. L’incarnazione (l’incarnazione di ogni carne, in qualsiasi 25 marzo del mondo) non dovrebbe sminuirsi tanto. Pavese dice: ci si uccide perché l’amore denuda, e il nudo è disarmato. Forse, ma forse no: ci si uccide perché ci si vuole uccidere, non per delega e colpa dell’amore. E poi il nudo – se è un nudo volontario – non è senza armi. Bisogna vedere i nudi di Kati Rudlova: non quelli come modella per altri fotografi, ma i suoi autoscatti. Sono serie, di cui è regista e interprete unica: Inside my Head, Bleeding in the Brain, Beyond the Mirror, Welcome Home e altre. Attenzione, non sono nudi amatoriali e non è pornografia. Sono visioni personali, offerte al mondo: è una forma di poesia, semplicemente. E ci vuole coraggio per mostrarsi così, e poi serve anche grazia. Cioè serve l’idea precisa di un percorso. È come dire: ora io mi mostro, perché so che cosa posso fare. A che cosa servo e a chi comunico. A quale fine tendo. E poi è anche un lavoro, certo, e le foto di Kati si possono comprare; ma è anche il lavoro di una poesia che si divulga, e senza paleografie e diplomatiche. Tutto è lì, senza mediazione sintattica. Allora il codice corporeo si mostra chiaramente: quando sei nudo – volontariamente nudo – resta solo la capacità di guidare il desiderio, sessuale o artistico. Così si crea il piacere di piacere. E questo non ha niente a che vedere con sbavature, soprattutto maschili, e molto italiane. No, per niente. Parlo di una grazia, che è roba imprendibile e piuttosto educata. Grazia e arte, insieme, sempre. E anche se è parola di Pavese, bisognerebbe abituarsi al contrario del Nudo Morto e Inerme, e praticarlo anche linguisticamente: il nudo non è debole, non è un verme e non è povero. Così come l’Amore non è la Morte: c’è solo un’assonanza, che è capitata per caso; e la Morte non è la Nudità. Basta con tutta questa morte, davvero. Il nudo e la nuda sono viventi, che sanno di essere come sono. E chi è nudo non è un verme. Non può esserlo, se non vuole esserlo. Il verme può esserci, ma è un altro: chi sporca la nudità e chi la costringe in altri. È lo scandalizzatore, quello vero: allora sì, “conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare!”.
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