Trento, 25 marzo 2014. – Questa è una schedula, quasi una glossa, cioè un’azione minore. È come quando l’oggettino cade in acqua: un piccolo rumore, i soliti cerchi, poi si vedrà qualcosa, poi si lascia lì, se ne getta un altro, ecc. La Rete va usata così: bisogna colpire e andare, esserci per apparire, un po’, e basta (ma soprattutto: apparire fuori, molto, e molto fuori di qui). E ogni atto è uno sberleffo, che segnala se stesso, no? Dove sono, che cosa sono, che cosa ho fatto, perché non c’è molto altro da dire; forse certi segni, particolari, purché se ne abbiano, e basta. Bisogna martellare una cosa, oggi, in più forme e in più versioni. Perché è importante, come se fosse – ed è, ma lo sarà sempre meglio – il simbolo di questo tempo. Dunque è il simbolo di questo tempo; e lo è anche di un’ossessione, certo. Questa ossessione è anche mia, lo so bene. È questa, eccola, sempre e da sempre la stessa: bisogna mediare, sì o no? Con tutti, proprio con tutti? E se sì, fino a quando, e quanto? E se bisogna mediare, fino a che punto? E bisogna dialogare, sì o no? Proprio con tutti? E se sì, fino a che punto? E fino a che punto un principio è negoziabile? Prendete il canto XXVIII dell’Inferno, ad esempio. Questo canto può, deve, o non può e non deve essere letto ed insegnato? C’è sempre e pesa molto; per fortuna si legge poco. E il più fedele dei servi chi è? Chi segue Paolo – si tratta di lui – o chi media? E poi è chiaro: il martello di Paolo – vedrete – va contro tutta la cultura di oggi, compresa la mia, la tua e la nostra; e compresa la nostra cultura politica, è ovvio. Esempio forte: Enrico Fenzi vede che i processi a Giorgio Soldati e a Roberto Peci sono stati mostri della ragione, con una base precisamente accademica: “La realtà appare come la stravolta parodia dello schema intellettuale del filosofo, e lo schema intellettuale rende un’immagine altrettanto stravolta di una realtà della quale il filosofo è solo lo sciacallo” (Armi e bagagli. Un diario dalla Brigate Rosse, Costlan, Milano 2006, p. 167). Il filosofo è Sartre, nella Critica della ragione dialettica, dove è teorizzato l’annientamento del traditore, “scaricando su di lui tutta la sua violenza”, perché “ci si accanisce su di lui in nome del suo stesso giuramento”. Il linciaggio del traditore “è legame di fraternità risvegliato e accentuato tra i linciatori”, va bene? Ecco ora il martello preciso, in più di una versione. Si tratta di Paolo, Seconda lettera ai Corinti, capitolo 6, versetti 14 e 15. Vulgata: “Quae societas lucis ad tenebras? Quae autem conventio Christi ad Belial?”. Diodati: “E che comunione vi è egli della luce con le tenebre? E che armonia vi è egli di Cristo con Belial?”. Nuova Diodati: “E quale comunione c’è tra la luce e le tenebre? E quale armonia c’è fra Cristo e Belial?”, Bibbia di Gerusalemme: “Quale unione tra la luce e le tenebre? Quale intesa tra Cristo e Beliar?”.Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture: “Quale partecipazione ha la luce con le tenebre? Inoltre quale armonia c’è fra Cristo e Belial?”. Nuova riveduta: “quale comunione tra la luce e le tenebre? E quale accordo fra Cristo e Beliar?”. Appunto. Paolo parla bene e chiaro. Ma chi sa dov’è la luce? E Belial, Beliar, come si riconosce?
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