Trento, 29 marzo 2014. – C’era una volta l'”eversione formalistica” (non era “eversione poetica e morale”, non poteva esserlo), il mondo l’ha riconosciuta un po’, vennero araldi e santi (laici) e fanti, e vedevano tutto loro, sapevano tutto loro, si facevano vedere e in effetti non erano molto asociali, frequentavano ambienti – pare – e la nostra favola si ferma sulla loro fortuna: durò poco, in fondo. Li si vedeva esaltati, o degradati, raffreddati, nelle interviste: erano eversori, ma parlavano bene, parlavano meglio, come i politici alle Tribune Politiche, come i chierici neri della Chiesa. Sembravano colombe e non erano falchi, erano umanisti, disumanisti, cose del genere, allora andava bene. Un giorno chiesero a Giovanni Testori che cosa insegnasse Shakespeare Scuoti-lancia al teatro contemporaneo, e la risposta è su “Sipario”, 218 (1964), pagina 57. Cinquanta anni fa, Testori disse che “nessun teatro, come il moderno, avrebbe bisogno di leggere Shakespeare… avrebbe da imparare dall’onnivora immensità delle tragedie shakespeariane che il teatro non è un luogo deputato alle prediche, ma allo stravolgimento, alla vera e propria rivoluzione delle finte sicurezze o velleità ideologiche cui invece sembrano tenere gli esigui giustizieri della drammaturgia moderna”. Proprio così. E la cosa funziona ancora, può funzionare sempre, da noi. Perché la questione Cristo-Belial è una guerra, ma è anche un’epica e una liturgia vitale (anche virale, ovvio, anche qui e ora). A volte le cose non sono molto chiare, per niente. A Zeffirelli parve diabolica la regìa della Carmen di Emma Dante alla Scala: “Ho visto in scena proprio il diavolo”. Ed Emma Dante rispose: “Questo suo attacco è per me benedetto, essendo lui una cariatide, significa che io sto procedendo. Buon segno”. Niente di certo, comunque parole parole parole, a favore e contro. E – a proposito di parole – c’era una volta una cultura organizzata, sociale ma sociopatica, amica formale del popolo ma lontana da tutto, ed era la serie delle cariatidi, dei moralisti immorali, gente così. Forse Emma Dante ne sa di più, per quanto riguarda la vita: rispetto a Zeffirelli, però, quindi rispetto all’Italia, non oggettivamente, non su una scala più larga. Per quanto riguarda la nostra vita italofona e occidentale, va bene? Ecco un compito veloce e felice: leggere nel Libro verde di Gheddafi le pagine sullo sport e sullo spettacolo. Ad esempio: “Coloro che si costruiscono la vita da sé, non hanno bisogno di guardare come va per mezzo di attori sul palcoscenico del teatro o nelle sale da spettacolo”. Bella storia, davvero. Bastava andare dall’altra parte del Mediterraneo e – lo vedete – né Emma Dante né Zeffirelli erano qualcosa di buono. Potevano sembrare i rappresentanti professionali della rappresentazione, tutto qui, e un occhio libico – nervoso, autoritario, carismatico, tutto quello che volete – li vedeva uguali. E ce n’era anche per noi, il pubblico pagante. Per Gheddafi il pubblico è il deficiente assoluto: chi è “incapace di rappresentare i ruoli dell’eroismo nella vita”. Bastano poche parole e il Mediterraneo ingoia i nostri gioielli culturali, o li ignora. E così? Né eversione formalistica né eversione poetica e morale: davvero, tanta vita, bella storia, e anche la sua bella parte di Tragedia, ben vissuta, finita male, se no non sarebbe Tragedia (in Gheddafi, certo; perché la Commedia “prospere terminatur”, si sa). Detto questo, io scrivo – anche – per il teatro, lavoro – anche – per il cinema.
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