Per tre anni la base navale «meglio ubicata del Mediterraneo» venne utilizzata da Supermarina solamente per l’imbarco delle mine e lo sbarco dei caduti – I bombardamenti aerei con cui il nemico precedette lo sbarco distrussero l’abitato sterminando la popolazione – Tre giorni di combattimenti sporadici per contrastare l’invasione: la conquista della munitissima piazzaforte costò agli alleati la perdita di due uomini – Se dubbio rimane che lo sbarco potesse venire impedito o le truppe arginate sulla battigia, è certo comunque che non fu organizzata nessuna difesa degna di questo nome – Il sacrificio di pochi reparti e l’intervento dei sommergibili e delle motosiluranti: eroismi, viltà, rassegnazione, tradimenti, incapacità dei comandi e capri espiatorî innocenti, una pagina di storia patria nella quale non sono in molti a tenere alto l’onore della bandiera Verona, 17 giugno 2016. – recensione Libri ricevuti Dubito che, a parte i lettori della “Rivista marittima” cui egli collabora, in Italia molti siano coloro che conoscono il nome di Tullio Marcòn, uno degli scrittori più serî e documentati fra quelli che si occupano della partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale. Con il libro “Augusta 1940-43”, édito da Mendola, un piccolo Editore di Augusta al quale va dato un merito parallelo a quello dell’Autore, l’ingegnere Marcon fornisce alla saggistica storiografica della nostra guerra un contributo di prim’ordine, reso anche più accetto da uno stile narrativo da scrittore di razza. Cosa sia accaduto in Augusta (Sicilia) nel luglio 1943, è storia ancora controversa. Come è noto, per la caduta della piazzaforte l’ammiraglio Leonardi fu processato e condannato a morte – in contumacia – dal Tribunale militare della Repubblica sociale italiana. L’indagine del Marcon parte da lontano, anche più di quanto il titolo del libro lasci credere, prendendo le mosse dall’anno 1938. La ricostruzione degli avvenimenti – cronologicamente circostanziata giorno per giorno, financo ora per ora, ed allargata alle zone territoriali e marittime d’influenza contigue, – è resa possibile da un diario a suo tempo quotidianamente tenuto dall’Autore, e dalla consultazione di documenti ufficiali italiani, tedeschi, britannici e statunitensi, la cui mole, a giudicare dai risultati (il dettaglio arriva sino alla menzione delle generalità ed età di tutti i caduti, militari e civili), si deve ritenere imponente. La narrazione, inoltre, è vivificata dai ricordi dei cittadini di Augusta e dalle testimonianze dei combattenti sopravvissuti, i quali, in gran numero intervistati dall’Autore, hanno consentito di integrare le cronache di quei giorni fornendo apporti determinanti. Non è facile, dall’immensa messe di notizie, informazioni e dati raccolti ed esposti dal Marcon, trarre elementi essenziali e conclusioni decisive, poi che ogni avvenimento, a volte anche apparentemente marginale, ha un suo peso nella drammatica vicenda della piazzaforte arresasi pressocché senza combattere: ed anche perché i comportamenti delle unità militari e dei rispettivi comandanti nei giorni dello sbarco del nemico, furono difformi, contrastanti, persino contraddittorî. Anche l’agire del Comandante la piazzaforte, che la sentenza di Parma volle colpevole di alto tradimento, appare dalla accurata ricostruzione degli avvenimenti di quei giorni volto piuttosto ad arginare l’avanzata nemica racimolando per quanto possibile le truppe addette alla difesa che si stavano sbandando: e tuttavia l’Autore non sottace la tesi secondi cui, sia pure facendo violenza a se stesso, l’Ammiraglio avrebbe operato al fine di agevolare l’avanzata degli alleati, in ciò ottemperando alle disposizioni del Re il quale, ad insaputa del Capo del Governo, voleva giungere ad un armistizio. Quando si legge che «alcune patetiche» mitragliatrici «Fiat mod.1914 raffreddate ad acqua e servite da non meno patetici richiamati della Territoriale infagottati alla meglio nel grigioverde, prendono posto sulle pendici di levante dell’isola con la canne puntate verso il mare» e che «sono questi i reparti antisbarco», si è portati a credere che le possibilità di difesa fossero invero scarse, e che la conclamata piazzaforte altro non fosse che un bluff. Ma Augusta era difesa anche dai 381 in casematte, che i bombardamenti aerei avevano lasciato indenni e che i cannoneggiamenti navali non avevano scalfito, e che i serventi, dopo avere sparato pochi colpi contro le navi nemiche, inspiegabilmente fecero saltare. In definitiva, non si può affermare che, se i reparti predisposti per la difesa avessero adempiuto ai compiti loro affidati, la lotta tra forze sbarcate e difensori avrebbe potuto avere un esito diverso, tanta era la superiorità sotto ogni aspetto del nemico. E’ poco probabile, anche, che lo sbarco avrebbe potuto essere impedito, o il nemico fermato sulla battigia. Non va però dimenticato come, in vari casi, la reazione italiana – pur scarsa come fu – , e poi quella tedesca, abbiano messo in seria difficoltà il nemico. Basti dire che tre salve dei 381 erano bastate per indurre le navi nemiche a ritirarsi immediatamente. Di fatto la reazione sin dall’inizio non fu quella che avrebbe potuto e dovuto essere. Troppa parte delle truppe si ritirarono senza combattere e senza utilizzare le armi – le quali non erano poi solo modelli ’91 – che erano state loro date in dotazione, e che troppi capi mancarono alle loro responsabilità o non ne furono all’altezza. Nello sfacelo generale vi fu chi, credesse ancora o non credesse più nella possibilità di vittoria, compì comunque il proprio dovere. «Questi uomini non erano i ciechi difensori di un regime in agonia. Essi – scrive il Marcon – compirono quel dovere che, con efficacia, è stato definito sentimento d’un servizio, obbedienza ad un principio etico.» E se, come altri ha sostenuto, l’unica giustificazione etica del soldato è quella di combattere per difendere il proprio Paese, non si vede quale più pertinente occasione al soldato italiano potesse darsi se non quella che gli si presentò nel luglio 1943, quando il nemico pose piede sul suolo della sua Patria. Al di là dei comportamenti e delle responsabilità di reparti e comandanti in sede locale, si pone poi il più vasto interrogativo che investe l’atteggiamento delle supreme gerarchie militari: in primo luogo di Supermarina che, avendo a disposizione una flotta di navi da battaglia intatte e perfettamente in grado di muovere, assistette impassibile all’invasione del territorio nazionale senza ritenere che fosse suo imprescindibile dovere, al di sopra di qualsiasi considerazione sulle probabilità di successo dell’operazione, farla intervenire, a costo di vederla distrutta dall’aviazione avversaria. Gli interventi si limitarono a nove sommergibili e ad una sezione di quattro motosiluranti, come se dal successo o meno dello sbarco potesse dipendere il possesso d’uno scoglio di trascurabile importanza, e non l’esito della guerra. Ricordiamo che tra i primi andarono perduti il “Flutto” e il Bronzo” (quest’ultimo catturato dal nemico), di recentissima costruzione, e che l’azione delle seconde venne guidata dal già eroico Francesco Mimbelli, medaglia d’oro, ora capitano di vascello. La storia della base navale di Augusta si può sintetizzare nell’uso che Supermarina ne fece durante i tre anni in cui fu risparmiata dal nemico, poi durante i bombardamenti che precedettero immediatamente lo sbarco alleato in Sicilia e che la ridussero in rovine, infine nella resa la quale fece seguito a tre anni di guerra e a tre giorni di saltuarî e isolati combattimenti. Alla vigilia della nostra entrata nel conflitto vi sono dislocati due incrociatori insieme con cacciatorpediniere e unità minori: ma in effetti la base non verrà utilizzata dalle navi se non per imbarcarvi le mine e sbarcarvi i caduti. Troppo poco, commenta il Marcon, in relazione alla sua importanza, sancita anche nell’incontro di Merano dai più alti responsabili navali dell’Asse che l’hanno valutata “la base meglio ubicata in tutto il Mediterraneo”. Le grandi navi restano a Taranto, e gli incrociatori pesanti a Messina. Nel giugno del ’41 vi prendono sede i sommozzatori della X flottiglia MAS «che raggruppa i nuovissimi e già leggendarî mezzi d’assalto della Marina». Il primo bombardamento di quadrimotori americani reca la data del 13 maggio 1943, appena due mesi avanti l’invasione. La prima ondata, di ventotto velivoli, sgancia duecentocinquantanove bombe sul porto. La seconda, di venticinque, con duecentoventicinque bombe e millecinquecento spezzoni incendiarî, prende deliberatamente di mira l’abitato. La popolazione fugge terrorizzata, ma anche molti militari perdono la padronanza dei nervi e abbandonano i pezzi contraerei. Il bilancio è tale che giustificherebbe un processo per crimini di guerra a carico degli Stati uniti: i militari hanno avuto un morto, mentre fra i civili le vittime dei liberators sono cinquantotto. Fra loro intere famiglie: come i Piazza, sterminati, padre, madre e sette figli; e, quel che è anche peggio, genitori privati di tutti i figli, come i coniugi Fazio, che ne perdono cinque, d’età da tre mesi a cinque anni, e i Bellistrì, che ne perdono tre, da cinque a nove anni. All’approssimarsi dell’invasione, la situazione della piazzaforte, secondo quanto riferisce il Marcon, appare tutt’altro che tranquillizzante: «Escluso che i convogli possano essere annientati dal contrasto aeronavale, escluso che il velo di truppe costiere sia in grado di respingere il nemico, e che dal continente possano affluire adeguati rinforzi, bisognerà contare unicamente sulle unità di corpo d’armata per ritardare il più possibile l’inevitabile caduta dell’isola». E’ un punto di vista estremamente pessimistico, dichiaratamente negativo, anche se le circostanze sembrano giustificarlo: gli armamenti sono carenti, i collegamenti mancano. «In tre anni di tempo ci si poteva pensare, adesso è tardi». Marinai, avieri, militi della contraerea non hanno soverchia intenzione di battersi: ci pensino le truppe costiere. Ma queste sono scarse e male armate. Il 9 luglio, 2500 navi trasporto, 400 mezzi da sbarco e 450 unità da guerra, con a bordo 160.000 uomini, 14.000 veicoli e 1.800 cannoni, s’avvicinano alla Sicilia. Solo il maestrale li contrasta. Il giorno dopo avviene lo sbarco, ed ha inizio la tragedia. La battaglia si frammenta in mille episodi: alcuni reparti resistono, altri ripiegano, altri ancora si sbandano. Gli ordini sono contraddittorî, quando non mancano del tutto: le comunicazioni non funzionano. Nell’incertezza dei comandi, la truppa decide. La carenza di notizie ed il panico spingono alla defezioni e alle autodistruzioni. Magazzini stracolmi di munizioni o di viveri vengono abbandonati al nemico o al saccheggio da parte della popolazione. Battaglioni con cui l’invasore non è ancora giunto a contatto, si ritirano, sguarnendo le spalle di altri reparti che resistono ma che conseguentemente sono costretti a ripiegare per non rimanere accerchiati. «L’Aeronautica è ridotta agli estremi: le ultime speranze si appuntano sulla Marina. Ma la potente squadra navale non verrà», preferendo starsene all’ancora nei porti. Il 13 luglio Augusta è in mano al nemico: la presa di quella che è la principale base navale del Mediterraneo gli è costata due morti e otto feriti. Nel generale collasso, alcuni reparti si sacrificano, come il II/76° fanteria e elementi del 121° reggimento costiero, più per onore della bandiera che nella speranza di potere ormai contrastare efficacemente l’avversario dilagante. In cielo, si sacrificano il 5° stormo tuffatori ed il 43° stormo bombardieri della R. Aeronautica. Va notato come, nonostante l’opera della propaganda nemica volta a scavare un solco tra la Sicilia e l’Italia continentale «facendo leva su incomprensioni mai sopite, su ingiustizie mai sanate», rilevante fu la percentuale di siciliani che si prodigarono nella difesa. Nella tragedia generale, le tragedie dei singoli, usati, come sempre, quali capri espiatorî degli errori degli alti comandi: in Catania il capomanipolo Giuseppe Catanzaro, deferito a un tribunale di guerra per abbandono di posto, viene sommariamente giudicato, condannato a morte e sbrigativamente fucilato, nonostante che, come fu poi accertato, egli avesse agito in ottemperanza a ordini superiori. Alle vicende della piazzaforte, s’accompagnano nel libro avvenimenti ed episodi della guerra in Mediterraneo: in particolar modo quelli relativi ad unità che avevano base in Augusta. Il 2 ottobre del 1940 era andato perduto il sommergibile “Berillo”, il cui comandante, tenente di vascello Camillo Milesi Ferretti, sarà protagonista in India d’una avventurosa fuga che narrerà poi nel libro “Ventimila rupie di taglia”. A fine marzo dell’anno seguente l’incrociatore britannico “Bonaventure” viene colato a picco dal sommergibile “Ambra” comandato dal tenente di vascello Mario Arillo, che dei mezzi d’assalto diventerà uno dei vettori, poi della X flott. Mas del principe Borghese il vicecomandante, e dopo la guerra amico affettuoso dello scrivente. Non mancano anche, nel libro, citazioni di episodi sintomatici ormai assai noti ma pur sempre memorabili: le bombe sganciate dagli aerei italiani sulle navi italiane a punta Stilo (9 luglio 1940); la strage di nostri cacciatorpediniere e siluranti ad opera dell’incrociatore britannico “Ajax” dotato di radar (10 ottobre) che vide il sacrificio, fra gli altri del capitano di corvetta Alberto Banfi, inabissatosi con l'”Airone”, e del capitano di vascello Carlo Margottini, caduto sull'”Artigliere”, ambedue medaglie d’oro d’una guerra combattuta contro un nemico sbagliato e, dall’istante della sconfitta, rinnegata._____________La recensione è stata revisionata dal comandante Claudio Ressmann
]]>“Augusta 1940-43” di Tullio Marcon (ed. Mendola, Augusta)
By Redazione11 Mins Read
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