Trento, 14 giugno 2014. – Perché cito sempre Massimo Fini? Prima di tutto perché non è un poeta, non è un narratore, non scrive particolarmente bene, ed è anche un bel personaggione: per esempio un pokerista, uno che dice “Mi onoro di aver pelato molti giovani della Milano bene”. Chiaro: non essere poeta e narratore, ma essere giocatore, non significa che uno sia un oracolo. Cerco solo un po’ di realismo e di stile: cioè i segnali del codice petroso dell’intensità, tutto qui. Ecco la frase di appoggio: “A me non interessano le ideologie, non mi interessa la democrazia, mi interessa il comportamento degli uomini”. Adesso immaginiamo Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, il loro gruppo di “spontaneismo armato” e le loro azioni. Giusva è stato un attor giovane: nel 1975 è il ragazzino di “Grazie… nonna” di Marino Girolami. Chi non ha visto “Grazie… nonna” farebbe bene a vederlo, con l’attenzione dell’antropologo. Dopo averlo visto, uno si può chiedere: come si fa a passare da “Grazie… nonna” all’eversione? Evidentemente un film come “Grazie… nonna” non soddisfa più il bisogno di realtà di Giusva. Quindi l’attor giovane esce dalla finzione perché vuole una funzione storica, a costo di fare il criminale. Ma la funzione che soppianta la finzione è una chimera: in effetti crea solo degli orfani, come disse Concutelli. Il problema è che all’irrealtà di “Grazie… nonna” non si è sostituito nulla di buono: né una grande opera, né una politica costruttiva, né una militanza sana, niente di niente. E allora il nulla culturale ha inventato il nulla violento, perché non ha tollerato di non essere profetico e carismatico: però il nulla culturale volle essere politico, e per essere politico non poté essere democratico. Fu onirico e violento, perché era il nulla. Ora “mi interessa il comportamento degli uomini”, cioè gli uomini. Per esempio il poeta Licio Gelli, membro di accademie e vincitore di premi letterari. O Giusva Fioravanti, che fu un attor giovane. O il criminologo-vip, che finì come Bertran de Born. Dopo aver letto Gelli e dopo “Grazie… nonna”, si capisce il disastro: il male si raggruma intorno a chi NON è un principe del male. Al posto del principe del male possono esserci degli artisti, con una sensibilità ostentata e pubblicata. Per esempio, Licio Gelli scrive così: “Quando di notte il dolore si sposa col silenzio / ed avvolge il cuore un mantello fiabesco, / è solo allora che mi sboccia la fatica del vivere / ed i miei pensieri si posano in un’eco di preghiera”. Capito? Nel 2014 è uscito “Bologna 2 agosto… I giorni della collera” di Giorgio Molteni e Daniele Santamaria Maurizio. È un film ibrido, metà fiction – i nomi sono cambiati, alcuni personaggi sono inventati – e metà storia vera. Sta ricevendo critiche anche forti, ma è bene andare al cuore di tutto: come si fa a scrivere la storia di un’irrealtà? Come si rappresenta la banalità dei mostri? Nel film, il problema è nella scrittura e in qualche attore: sul piano estetico. Ma sul piano del prâgma: come si fa ad essere narratori solidi, quando la storia criminale non ha fini, non ha spiegazioni e appare dopo “Grazie… nonna”? Così il film di Molteni e Santamaria non spiega, perché non si sa ancora che cosa spiegare. Allora tenta la carta della fiction – un film più televisivo che cinematografico, più morale che documentario –, a costo di rinunciare ai dati precisi e ad una direzione più severa degli attori. In quanto fiction, sceglie di rappresentare qualcosa e di inventare qualcosa. Ma quando i personaggi reali sono nulli, ambigui, inafferrabili (e forse erano telecomandati, perché erano nulli), non si può narrare, se non con un occhio un po’ poetico, oppure si fa un documentario duro e puro. Ad esempio: uno può rimontare “Grazie… nonna” e mischiarlo ai fatti reali, ovviamente per fare un’opera di poesia, ad uso del mandarinato culturale (cioè il mondo di cui parla ancora Fini, sul “Fatto Quotidiano” del 16 gennaio 2014). La poesia, l’analisi, il documentario non sono popolari, e per questo esiste la fiction, cioè la prosa semplice. O faccio il poeta-mandarino – per esempio con la grazia di “Buongiorno, notte” di Bellocchio – o cerco il pubblico, e a questo punto gli parlo in prosa. È un brutto bivio, ma è reale. Ecco perché giustifico il film “Bologna 2 agosto”: perché bisogna essere realisti.
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