Trento, 20 settembre 2013. – Dante non ha un grande passato alle spalle, da una parte del suo punto di vista letterario. Se guarda al mondo che ha parlato e parla latino, ha 1400 anni di letteratura magistrale alle spalle; in volgare no, perché la Vita nova lo dichiara: il primo a scrivere poesia non in latino lo fece per farsi capire da una donna non letterata; e si scrive in volgare da non più di 150 anni. Così Dante ha davanti a sé due tradizioni: una è antica, parla in una lingua che il popolo non parla più, e ha generato libri e libri; l’altra è recente, parla nella lingua del popolo, e non ha ancora generato un grande magistero. Ecco il punto: Dante è un uomo giovane, all’interno di una letteratura giovane. Nella Comedìa il giovane incontra i poeti del passato. In realtà è un passato più selettivo di un’antologia: un solo greco (Omero) e quattro latini (Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano). Dante è il sesto, e tra i sei poeti nasce un dialogo che «il tacere è bello». Il silenzio sul dialogo dei poeti può avere molti significati: forse l’argomento è lo stesso Dante, o la sua elezione divina, oppure la letteratura contemporanea. Il passato letterario è oggetto di una selezione feroce: solo cinque poeti. Il presente è una selezione anche più feroce, perché in pratica non esiste: un solo poeta, cioè Dante. Nessun poeta della latinità medievale, nessun provenzale (Bertran de Born e Arnaut Daniel appaiono come dannati, nell’Inferno e nel Purgatorio; Folchetto di Marsiglia appare solo come santo, nel Paradiso, non come poeta); nessun italiano (Brunetto, Bonagiunta e Guinizelli sono figure municipali, in vita; figure della dannazione, transitoria o perpetua, in morte). Ovviamente nessun vivo, né piccolo né grande: l’unico vivo è Dante, e tra gli antichi è anche l’unico cristiano. I cinque grandi del passato sono dotati di senno e savi. Sono saggi e intelligenti, ma la loro espressione non è né triste né lieta. Il Limbo è il desiderio inappagato, come una castità forzata o un’ospedalizzazione non voluta; è un confino anaffettivo, che blocca gente come Platone e Omero. Non ci può essere nessun culmine sentimentale: nel Limbo non c’è l’amore, perché non c’è movimento, quindi c’è gloria, ma non c’è più storia. Dante si colloca come l’erede della storia finita e della gloria perenne; e poi vuole dire che tra i poeti del passato e lui stesso c’è una differenza abissale. Si tratta di un nodo, come si dirà nel Purgatorio. Dante dice di seguire Amore, nel canto XXVI del Purgatorio. L’Amore «spira», cioè soffia santamente un dettato. Senza questa ispirazione – che è un fatto privato, gratuito, inimitabile – non c’è la poesia nuova e presente, che Dante incarna; c’è solo il senno dei savi, altissimo e rispettabile, ma è una cosa vecchia; oppure c’è la retorica di Bonagiunta, che può avere argomenti, ma non ha un motore. E chi non scrive sotto l’impulso di Amore è come un morto in vita: un illuso, che si sforza di mantenere gli «dèi falsi e bugiardi». Ma Dante segue il vero, ed è nel vero. Probabilmente crede di essere lui il vero, e così si stacca dal passato e dai contemporanei. Dante non ha semplicemente una vocazione. Una vocazione ce l’hanno tutti, più o meno. Non è nemmeno un savio, perché chiunque può essere savio. Dante è un’altra cosa: si convince di essere una vocazione, cioè un destino generale, anche oggi. I contemporanei sono effetti del destino, scritto nel passato. E si tratta di noi, sempre: che trattiamo Dante da amico, non da legislatore sacro. Illudersi è sempre bello, e oggi l’unicità fa anche un po’ di paura: mentre Dante nega la fraternità con tutto e tutti. Si fa vedere con Omero e Virgilio, il meglio della storia. Omero è un’aquila, Virgilio un dolcissimo padre. Niente di meglio al mondo, per chi arriva da un Comune italiano: due parole fanno sempre piacere, e poi si va avanti.
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