Trento, 12 luglio 2015. – L’apparenza di chi lotta è nervosa, ma chi sta bene ha le guance troppo tenere. Si tendono e si stendono i pezzi e i pezzetti del viso, ma il risultato è ridicolo: o è un viso troppo mosso o è troppo fermo. Imparerò precisamente il controllo. Attenzione a non confondere il freak con il presentatore: il presentatore è come Pilato, innocente del sangue mostruoso. Il freak si carica tutto il peso, ma Diprè è solo un selezionatore, che può giudicare: il freak è “un mostro autentico, anche a me dà fastidio perché è atroce, è la dimostrazione dello schifo totale”. Chi non è con me è con Andrea Diprè, vero? Perché io sono un intellettuale, e anche un artista PURO. Diprè no, a quanto pare: non è né artista né intellettuale, e non è puro. Ma se io riconosco ad Andrea Diprè la singolarità – e quindi lo riconosco, riconosco LUI, Andrea Diprè – come posso dire: chi non è con me è con Andrea Diprè? Presto scriverò un inno a Karl Lagerfeld. Qualcosa di grosso, certamente, e senza ironia, ma con molti aforismi, le cose più riciclabili del mondo. Lagerfeld mi interessa perché la sua esistenza dà qualche garanzia alla mia esistenza. Davvero. Perché Lagerfeld è molto più che couture: è la perfezione ambiziosa e versatile, che giudica dall’alto in basso, come il perfetto signore asociale. “In confronto a noi, gli altri fanno stracci”, è vero, e lo dice a Valentino nel film su Valentino. Il re è vestito, e vestito bene (e la cultura è un fatto privato, come dice Diprè; ha abbastanza ragione, ma la couture è pubblica, perché è un lavoro). Ho fatto un’intervista, da inserire in un film. La prima domanda era: come fai ad essere così versatile, tu? Io? Sì. Ho risposto in tre modi: il primo è che il mona fa tuto, lo scemo fa tutto (non si sa mai). Il secondo è che sarebbe bello dare una risposta analitica e forbita: per esempio parlare del fondo psicologico ossessivo e traumatico. Il terzo modo è questo: lo faccio perché mi piace, perché le arti sono pròtesi, e perché “tutto mi interessa e mi sollecita”, parola di Lagerfeld (al quale dedicherò un inno, come ho detto). Investire sulla visibilità del corpo e dei prodotti, qui e ora, è un atto più militare che poetico. Ha a che fare con la pubblicità, quindi è un atto duro, che parla con l’imperativo (e con i soliti aforismi, brevi e sicuri, come qualunque dux). Finché sta in Occidente, un artista IMPROPRIO deve tutto ai maestri dell’apparenza occidentale: non molto umani, a dire il vero (e Lagerfeld non è umano, perché non è sociale). Il Libretto verde di Gheddafi parlava di un’arte non occidentale, e della vita seria e della viltà dello spettatore pagante, l’Occidentale che non ha il cavallo e paga per vedere i cavalieri. Io sto al mio Lagerfeld, sempre, ma solo all’interno della mia zona: è la stessa zona che giustifica Diprè, in fondo, e in cui hanno respirato Rilke e Bukowski. Ma Rilke e Bukowski non hanno nessun senso a Bujumbura.
]]>
Previous ArticleSara Ferrari e l’ideologia gender
Next Article L’ailanto e il mullah Omar