Trento, 23 aprile 2016. – Ipotesi 1: Marco Giovenale, Andrea Inglese, Andrea Raos, Andrea Cortellessa, Maria Grazia Calandrone e Gilda Policastro aprono la pagina culturale di “Trentino Libero”. Trovano i miei articoli e li saltano: io, ex amico, ex collaboratore, non posso più essere letto; se sono letto, il giudizio è facile: non è più come noi e non è mai stato come noi [ed è un errore, perché abbiamo una cosa in comune, io e loro: non siamo mai andati ad incatenarci davanti alle ambasciate dei Paesi che uccidono; quindi abbiamo praticato un’opposizione puramente intellettuale]. Vanno avanti e trovano gli articoli. Leggono qualcosa e dicono: la prosa è correttissima, l’autore è di destra, e la prosa dell’autore di destra parla solo degli amici e dei libri degli amici. Fine dell’ipotesi. Ipotesi 2: Sergio Stancanelli apre qualche sito (“Nazione indiana”, “Le parole e le cose”) o la rivista “L’immaginazione” o “Poesia”. Troverà Marco, i tre Andrea, Gilda, Maria Grazia ed altri. Che cosa dirà Stancanelli? Dirà questo, più o meno: la prosa di questi ex giovani è irregolare, ed è molto omologata. Dirà che sembrano più o meno lo stesso autore, perché questi autori NON vogliono apparire individuali, mentre lui, che ha 88 anni, sente che una pagina di Malaparte ha un altro suono rispetto ad una pagina di Montale, e una pagina di Moravia non suona come una pagina di Pavese, e Pavese non suona come Coccioli. È ovvio – pensa Stancanelli – perché la diversità è prima di tutto ritmica, e io la sento. Solo un idiota non la sentirebbe: è una diversità OGGETTIVA. Stancanelli sarà anche più preciso, e questa volta da un punto di vista politico. Ha capito subito che per questi autori essere di sinistra NON significa credere ai diritti dei lavoratori e al materialismo storico. Noterà che, per loro, essere di sinistra significa essere irreligiosi e antieroici, ed evitare accuratamente il successo, anche quando (e questo Stancanelli non lo sa, credo, ma io lo so) un autore è abbastanza ricco da comprarsi la vera fama: ma raggiungere la vera fama sarebbe una forma di singolarità, e ogni singolarità è intollerabile nel gruppo. Nessuna lotta, nessun eroismo, nessuna distinzione personale e artistica del singolo, ma – nello stesso tempo – nessun proletariato e nessun vero materialismo: in generale nessun popolo, nessun Dio, nessun io. Poi Stancanelli dirà la cosa peggiore: questi autori di sinistra citano, recensiscono, studiano solo i loro amici e i libri dei loro amici. In pratica l’uomo di destra noterà la stessa cosa che hanno notato a sinistra. L’uno e gli altri avranno rilevato un punto, che io traduco così: l’inesistenza di qualsiasi valore educativo della cultura. Non esiste più una cultura come crescita e come insegnamento, ma solo una cultura come condivisione tribale, all’interno di una cerchia già informata, che non deve crescere e non deve imparare. E adesso tocca a me. Faccio molta vita pubblica, con piacere. A dire il vero, la faccio anche un po’ narcisisticamente. Bene. Ascolto molto e parlo molto, ma di solito parlo per ultimo, perché sono o il più giovane o l’attore. L’attore è chi diverte gli altri o li intrattiene. In realtà – nel mio caso – sono gli altri ad intrattenermi, ma non devono saperlo. Dunque: accade che qualcuno parli di poesia, prima che io la legga. Potrebbe essere la presentazione del poeta X, ma il presentatore non ha mai letto X. Quindi parla genericamente. Genericamente, citerà Alda Merini e Mario Luzi – c’entrano poco, ma sono nomi degni – e poi Walter BENGIAMIN. Bèngiamin, proprio così, pronunciato all’inglese. E quindi chi è diventato Benjamin? Non è diventato nessuno: è stato solo cooptato, tra gli amici, per fare rumore e colore. È da colti citare Bèngiamin, poi non esageriamo, perché siamo tra amici. Poi verranno altre parole, sempre generiche, e poi parlerà l’attore, io. E l’attore non sarà generico, ma sarà giudicato “molto personale”: significa che non è stato capito e ha fatto un po’ di paura; poi saluti, a volte cibo, poi silenzio e addio. La cultura come erudizione appassionata, poliglossìa e originalità è quasi morta (fu quella di Sanguineti o di Contini; rimane Busi, ma Busi ha 68 anni); la cultura come creazione di un popolo futuro è morta (fu l’idea di Luigi Nono, o anche di un certo Pasolini); la cultura come disperata singolarità critica (Carmelo Bene o Guy Debord) è morta. È facile dire che ha vinto la società dello spettacolo, o il sistema, o l’imperialismo. No, è molto peggio. Ha vinto l’amicizia, in fondo. Ha vinto l’idea che il cambiamento non ci deve essere o – se c’è – è solo personale (e questa è l’idea di Andra Diprè: la cultura è un fatto privato). Dove è impegnato un gruppo, quel gruppo non deve imparare nulla e non deve riconoscere nessun carisma, ma rivelarsi – simpaticamente e pateticamente – a se stesso. Là dentro, ogni singolarità deve essere riassorbita, subito. All’interno del gruppo vale la logica di Jep Gambardella: “Ma insomma… come e quando si manifesta il tuo sacrificio? Queste sono le tue menzogne e le tue fragilità. Stefa’, madre e donna, hai cinquantatré anni e una vita devastata, come tutti noi… Allora invece di farci la morale… di guardarci con antipatia… dovresti guardarci… con affetto… Siamo tutti sull’orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, pigliarci un poco in giro… O no?”. Tutto quello che ho fatto è sempre stato un po’ troppo singolare, come l’invenzione – ora – di una microeditoria, Lotta di Classico. Perché non farlo?, penso – e quindi l’ho fatto. Certo, rimane la possibilità di scrivere sugli amici o sull’immortale amata – e qualche volta l’ho fatto. E poi si può scrivere per gli amici – e ho fatto anche questo, ma la svalutazione dell’orgoglio è stata forte. Oggi rimane un’idea bella e nervosa: è meglio aver fatto qualcosa, comunque. Il singolo si merita cose singolari, e se le può fare le fa. Intanto gli autori che ho nominato all’inizio inorridiscono e sono liberi di farlo. Poi viene il cinema, ma questa è un’altra storia: perché qui ci ho messo la faccia, sempre meglio delle parole. Ma anche i tentativi singolari possono essere un’illusione: un giorno scoprirò di essere un’altra Stefa’, con la sua stupenda “vita devastata”? È possibile. Ma anche allora uno si gira e saluta. Forget about it, esistono solo i problemi che uno si crea.
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