Libri ricevuti Verona, 2 aprile 2017. – recensione Ricevuto in omaggio dall’autore e dall’editore, questo libro tratta un argomento del quale mi sono occupato più volte recentemente, citandone passi che ne ho estratti dopo una prima lettura. Il tema è quello esposto nel titolo: nonostante studi, progetti ed esperimenti il cui inizio risale alla fine del secolo XVIII, l’Italia entrò nella seconda guerra mondiale con una Marina che per navi da battaglia e flotta subacquea era una delle più potenti del mondo, ma che mancava di navi portaerei, in quanto qualcuno aveva sostenuto che, distesa com’era attraverso il mare Mediterraneo, la penisola italiana era essa stessa una portaerei. Non s’era valutato però che gli aerei avevano una certa autonomia, la quale limitava la protezione del mare entro un certo raggio dalla costa, restando scoperte le zone più lontane pervenendo sulle quali gli aerei, per mancanza di carburante, non avrebbero più potuto fare ritorno. Dopo la guerra, di tale carenza, che se non fu la causa per cui perdemmo la guerra fu però la causa per cui perdemmo tante battaglie – non solo sul mare ma anche sulla terra , -venne imputata la responsabilità al capo del Governo e ministro della Marina, il quale essendo stato ucciso non poteva rispondere alle accuse: ma in sua difesa insorsero gli storici che, documenti alla mano, provarono come fossero stati gli ammiragli del Comitato progetti navi a scartare l’ipotesi di costruire una portaerei ogni qual volta erano stati interpellati in tal senso, mentre al contrario Benito Mussolini, nel rimettersi al parere dei tecnici, aveva sempre dichiarato la propria disponibilità (A. Santoni e F. Mattesini, “La partecipazione tedesca”, ed. Dell’Ateneo & Bizzarri, pag.12; D. Lembo, “Le portaerei del Duce”, ed. Ma.Ro, pagg.41-43). Per segnalarlo su “Trentino”, ho riletto il volume (A. Rastelli, “La portaerei italiana”, Ugo Mursia editore, Milano, pagine 236, con 30 fotografie e 1 disegno fuori testo, euro 17.56), che presenta notizie più ampie, le quali vanno dal 1798, quando un reparto della Compagnia d’aerostati francese fu imbarcato su “Le patriote” – una nave da trasporto della squadra francese che portava la spedizione del generale Bonaparte in Egitto, – per effettuare una ricognizione della costa egiziana prima dello sbarco, sino al 2000, quando negli Stati uniti entra in squadra la portaerei “Ronald Reagan” dislocante 102mila tonnellate e capace di 80 aerei imbarcati: ma che per quanto ci riguarda non apporta informazioni diverse da quelle di cui già si era in possesso, salvo ampliarle e dettagliarle notevolmente (non senza alcuni piccoli e grossi errori). Esponiamole. Nel febbraio 1925, partecipando ad un concorso indetto dal Ministero della Marina, il comandante Giuseppe Fioravanzo presenta lo studio “Sulla opportunità della costruzione di navi portaerei” – che fu premiato – , la cui conclusione ambiguamente recita: «Convinto assertore dell’opportunità delle portaerei, il sottoscritto nega la loro necessità per lo meno impellente per l’Italia», non tacendo in tal modo l’autentico punto di vista dell’autore, ma venendo incontro al parere degli alti vertici della Marina.L’11 agosto 1925 si riunì il Comitato progetti navi, costituito da ammiragli, alla presenza di Benito Mussolini in veste di ministro della Marina e del sottosegretario alla Marina contrammiraglio Giuseppe Sirianni. Il generale del Genio navale Giuseppe Rota aveva presentato un progetto di nave portaerei dislocante 12.480 tonnellate, con ponte di volo della lunghezza di 86 metri, ch’era in realtà un incrociatore con due torri quadrinate da 203, sei cannoni da 120 e due complessi sestupli di mitragliere da 40, ma con i fumaioli (tre), la stazione di direzione del tiro, la plancia comando e l’alberatura abbassabili durante le operazioni di decollo. La domanda era se fosse necessario per l’Italia disporre di navi portaerei, e, tenuto conto che per ragioni economiche non se ne sarebbe potuto costruire se non soltanto una (il che, in caso di danneggiamento, ce ne avrebbe lasciati privi), se fosse opportuno adottare il progetto Rota di incrociatore-portaerei il cui costo di realizzazione ci avrebbe consentito di costruirne due. In apertura di seduta, il capo di S. M. della Marina viceammiraglio Alfredo Acton sostenne che, tenuto conto della maggiore autonomia di cui presumibilmente gli aerei avrebbero potuto disporre in un futuro assai prossimo, si poteva ritenere che tutto il mare Mediterraneo poteva essere vigilato da velivoli partiti dalle coste (penisola e isole, Quarta sponda, Dodecanneso, ndc.), salvo solo le acque delle Baleari, controllabili però dai quattro aerei che ciascuna nave da battaglia avrebbe potuto imbarcare. Mussolini chiese allora il parere degli altri ammiragli: conformi all’opinione di Acton si dichiararono Fausto Gambardella, Fabio Mibelli, Diego Simonetti e Emilio Solari, mentre Guido Biscaretti e Vittorio Molà (altrove Mola) ritennero la portaerei utile ma non indispensabile; l’autore non riporta il parere di Giuseppe Mortola, Pio Lobetti Bodoni e Giovanni Tomadelli, che completavano il Comitato, nonché del Sirianni e del Rota, che si deve dedurre furono favorevoli. E così, 5 + 2 contro 5, di stretta misura la portaerei non si fece. Il problema delle portaerei fu ripreso nel dicembre 1926 in un’altra riunione del Comitato ammiragli, presieduta da Mussolini: ne emerse la decisione che assolutamente non era necessario costruirne. L’anno prima il maggiore Luigi Gagnotto aveva avuto una chiara visione del futuro sostenendo che l’aereo sarebbe diventato l’occhio della flotta, mentre nello stesso 1926 il generale Alessandro Guidoni, che nel 1917 aveva progettato il primo aereo silurante, e che sarebbe deceduto nel ’28 provando un nuovo tipo di paracadute sul campo d’aviazione militare di Montecelio (al suo nome il fascismo titolerà un centro abitativo per il personale fondato lì nei pressi nel 1935), proponeva un catamarano portaerei di sole 3500 tonnellate della capacità di venticinque aerei, utile per la ricognizione a distanza, il cui progetto restava inosservato. Due anni dopo, nel ’28, in un incontro fra Italo Balbo – credo allora sottosegretario all’Aeronautica – e il capo di S. M. dell’Aeronautica – il cui nome l’autore si dimentica di menzionare, – con gli ammiragli Sirianni, Ernesto Burzagli e Romeo Bernotti rispettivamente capo e sottocapo di S. M. della Marina, Bernotti sostenne accanitamente la necessità per la Marina di disporre di una sua aviazione, ma venne tacitato. Non cedette tuttavia, e sulla “Rivista marittima” del giugno 1929 si legge a sua firma: «Chi non possiede portaerei deve farsi al più presto la sua esperienza senza attendere che l’importanza di questo tipo di nave sia dimostrato dalla guerra. Il rinvio esporrebbe a rimanere pericolosamente arretrati.» Ma già sin dal maggio 1927 il tenente di vascello Aldo Finzi aveva sostenuto che una flotta non poteva prescindere dall’osservazione aerea, e che tali aviatori dovevano essere marinai.Grazie a Bernotti, il problema non venne accantonato, e nel maggio 1928 lo S. M. della Marina, su disposizione dell’ammiraglio, mise allo studio una portaerei dislocante 15mila tonnellate, con l’autorizzazione e l’approvazione di Mussolini ministro della Marina. L’opposizione cieca e cocciuta di Balbo sembrò debellata quando questi nel 1934 venne rimosso dal Ministero ed esiliato in Libia come governatore. Ma non mutò il malvolere dell’Aeronautica, contraria anche all’impiego di aerei per il lancio di siluri, con atteggiamento che l’autore definisce dettato da totale ignoranza o completa malafede se non da follia. Nel maggio 1935 la Marina preparò il primo piano organico quinquennale di sviluppo della flotta, che prevedeva, oltre a quattro navi da battaglia, quattro incrociatori, ventiquattro caccia, naviglio minore, e cinquantaquattro sommergibili, anche tre portaerei. Il 4 settembre l’ammiraglio Cavagnari emise le specifiche di progetto per una portaerei di 14mila tonnellate, per la realizzazione della quale l’ammiraglio Umberto Pugliese, direttore del Comitato progetti navi, propose di associare nella fase di studio anche l’Aeronautica. La risposta di Cavagnari fu negativa. Lo studio della portaerei andò avanti lo stesso, e nel ’36 fu avanzato il progetto di trasformare in portaerei due transatlantici, il “Roma” e l'”Augustus”, progetto che rimase sulla carta. Il 15 marzo 1938 il diniego alle portaerei da parte della Marina fu ufficializzato da Cavagnari in un discorso alla Camera dei fasci e delle corporazioni, attuando così una resa definitiva alla posizione dell’Aeronautica, resa sottoscritta dagli ammiragli Angelo Jachino nell’articolo d’apertura dell'”Almanacco navale 1938″ e Luigi Sansonetti sul “Brassey’s naval annual”. Dal “Manuale di cinematica navale” firmato dal comandante Fioravanzo per gli allievi dell’Accademia navale, fu tolto il capitolo relativo alla cooperazione aeronavale. Nel 1940 ebbe vasta diffusione il volume “La Marina da guerra” scritto dal capitano di vascello Ubaldo degli Uberti (ed. Salani), il quale vi affermava che l’idea della nave portaerei era «la più vulnerabile, la più illogica, la meno adatta per muoversi e trionfare nella guerra moderna in mare». Nel frattempo, nel novembre 1939, il nuovo capo di S. M. dell’Aeronautica, generale Pericolo, aveva passato alla Whitehead un ordine per siluri aerei, e chiesto alla Luftwaffe di stornare cinquanta siluri del suo ordine: ma si era già a guerra iniziata, e, mentre un SM 79 modificato come aerosilurante era già in servizio dal 1937, solo nel ’39 si ordinò di passare alla produzione in serie. Per quanto riguarda i bombardieri e la caccia, nei primi mesi di guerra si verificarono vari episodi ormai ben noti: i primi bombardavano per errore le nostre navi, e non azzeccavano neppure un centro; i secondi erano per lo più assenti, lasciando le nostre navi indifese dalle bombe e dai siluri avversari. Fioravanzo rileverà la carenza di collaborazione da parte dell’Aeronautica: i ricognitori inglesi imbarcati avevano sempre fornito informazioni, quelli italiani terrestri no; gli aerosiluranti nemici ci attaccavano senza intervento difensivo della nostra caccia; i nostri bombardamenti in quota non avevano conseguito alcun effetto, ed anzi solo per mancanza di abilità dei nostri piloti non avevano colpito le nostre navi; la flotta inglese se ne stava anche per due giorni nelle acque italiane senza essere avvistata da nessun nostro aereo; dopo gli scontri la ricognizione aerea italiana non provvedeva a seguire i movimenti delle navi nemiche. Insieme con l’aviazione italiana, era assente dai cieli delle nostre unità navali anche quella germanica. Dopo la perdita dei cacciatorpediniere “Zeffiro” e “Pancaldo”, prime navi da guerra nella storia affondate con siluri sganciati da aerei, e nel secondo caso per di più decollato da una portaerei, si arrivò così al 26-29 marzo 1941, quando per mancanza di ricognizione aerea e di caccia protettiva dovuta alla mancanza di una portaerei nella nostra squadra navale – comandata da quello Iachino che l’aveva dichiarata non necessaria – , avemmo aerosilurati il “Pola”, che andrà perduto, e la “Vittorio Veneto”, e fatti a pezzi dalle corazzate inglesi, che non sapevamo essere nei pressi, “Zara”, “Fiume”, “Alfieri” e “Carducci, mentre “Oriani” sopravviverà mezzo demolito, col fuoco a bordo e l’equipaggio sterminato, delle nostre navi rimanendo indenne il solo “Gioberti” (Gaudo e Matapàn). Il 7 dicembre entra in guerra il Giappone e con gli aerei imbarcati su sei portaerei attacca la flotta statunitense nella base di Pearl Harbor. Dapprima centonovanta caccia distruggono al suolo l’aviazione americana, poi centosettanta bombardieri e siluranti attaccano le navi. Al successo militare s’accompagna la celebrazione del rito: l’affondamento di una nave da battaglia costituisce un mito, noi italiani non siamo ancora riusciti ad affondarne neppur una, i giapponesi – che nella loro storia plurimillenaria si vantano di non avere mai perduto una guerra, – in un colpo solo ne affondano cinque (“Arizona”, “Oklahoma”, “California”, “Nevada” e “West Virginia”). E’ un’iniezione di ottimismo per l’Asse. E non è finita: l’indomani 8 dicembre, nel canale di Malacca, i nipponici attaccano, sempre con l’aviazione delle portaerei, le corazzate inglesi “Prince of Wales” e “Repulse” e le affondano entrambe, colpendole rispettivamente con undici e con quattordici siluri. Ma già prima di questi eventi spettacolari, a fine marzo, dopo la catastrofe di capo Matapan, Mussolini, esercitando il proprio potere di dittatore ed ignorando i pareri discordi degli ammiragli, aveva dato ordine di mettere immediatamente in esecuzione il progetto risalente al 1936 di trasformare in portaerei le motonavi “Roma” e “Augustus”, rispettivamente ribattezzate “Aquila reale” (poi semplicemente “Aquila” dopo il 25 luglio 1943: è strano che tutti gli storici, nessuno escluso, ignorino che alla prima portaerei italiana era stato imposto il nome “Aquila reale”, non “Aquila” come tutti scrivono) e “Sparviero”. Ambedue i lavori di trasformazione avvennero nel porto di Genova, dove abitava il cronista, che, pur giovane, ne fu testimone diretto. Per un quadro obiettivamente realistico, va precisato che sino al 1926 le navi dotate di aerei non erano provviste di catapulte, sicché per decollare gli aerei – solo idrovolanti – dovevano essere messi in mare: semprecché le sue condizioni lo consentissero; e non va sottaciuto che, classificata nel “Naviglio ausiliario”, la Marina disponeva di una nave appoggio-aerei, la “Giuseppe Miraglia” (propriamente battezzata solo “Miraglia”), dotata di due catapulte ma praticamente utilizzata non per altro che per la riparazione degli aerei imbarcati sulle unità maggiori (nave che il cronista ricorda per conoscenza diretta, avendola visitata, insieme con i propri familiari, nel 1939). Sul piano letterario, la nostra lingua è sempre usata correttamente, con le eccezioni ormai incredibilmente consuete: all’avverbio «affatto» viene arbitrariamente attribuito il significato per niente (significa del tutto), l’avverbio «insieme» viene accompagnato erroneamente dalla preposizione a in luogo di con (ma non sempre: «Insieme con i G 50 e agli aerei tedeschi», pag.174), mentre non manca qualche refuso («in una riunione presieduto da Mussolini», «l’apparato motore costruita dall’Ansaldo», «la “Saratoga” fu distaccata e ed inviata», «i convogli erano accompagnate»). La “Bismarck”, della quale gli inglesi avevano perso le tracce dopo la battaglia con la “Hood”, venne ritrovata da un Catalina la mattina del 26 maggio 1941, non marzo (è evidente la confusione con Gaudo, 26 marzo).Un grosso errore si riscontra in pagina 178, dove si legge che la mattina del 24 aprile 1945, sul punto di abbandonare Genova, i tedeschi si accinsero ad affondare l'”Aquila” per ostruire l’ingresso del porto, «ma qualcosa non andò per il verso giusto e l’unità non affondò». In realtà, ormeggiata in ponte dei Mille, l'”Aquila” rimase indisturbata lì dov’era. Il tentativo di bloccare l’ingresso del porto da parte dei tedeschi risaliva a giorni prima, ed era stato effettuato con l’autoaffondamento dello scafo della “Sparviero”. Anziché scendere sott’acqua orizzontalmente, la nave s’inclinò, affondando la poppa e sollevando la prua, la quale ricadendo s’appoggiò poi all’estremità della diga foranea, lasciando aperto un varco. Per completare questa sommaria cronaca, aggiungo che il responsabile della fallita operazione, un colonnello tedesco, venne fucilato . Il volume è dotato di tre appendici e di una bibliografia ampia ma incompleta. Tra i volumi che si occupano della fattispecie, manca fra l’altro, importantissimo, “La partecipazione tedesca alla guerra aeronavale nel Mediterranei” di Alberto Santoni e Francesco Mattesini, ed. Dell’Ateneo & Bizzarri, Roma, 1980.
]]>“La portaerei italiana” di Achille Rastelli (ed. Mursia)
By Redazione13 Mins Read