Trento, 19 ottobre 2013. – Non sempre si scrivono oggetti alati. Nemmeno corpi contundenti, per offendere. I corpi ironici diventano carismatici, a volte: Nuti, per esempio, non Benigni (Francesco, se mi leggi: forza, sempre; e grazie: rivedo spesso il dialogo con Laura Betti in Tutta colpa del Paradiso: «Lo sa’ perché te tu se’ una troia? Perché te ‘un tu se’ ma’ stata una troia…»). Va bene: lo Spirito soffia dove vuole, no? E la prima che incontri per strada può essere anche una donna. Per questo uno aspetta il futuro, «biblico nella sua grandezza», come ha scritto Amelia Rosselli: se non lo farà per eroismo, lo farà perché è curioso. Non sempre si scrivono oggetti alati e lettere d’amore. A volte si prendono i piccoli fatti veri e si fa qualche analisi. Edoardo Sanguineti non faceva altro, perché non aveva più vita se non nei fatti, e non aveva più sensazioni, come un morto. Ma io – maledizione – non sono un morto, e ho sensazioni. E tutte le tessere sono linguistiche, tutti i sogni sono segni, anche particolari, e va bene. Ora penso che Sanguineti occupasse una posizione con gli esercizi sui fatti: ma i fatti sono un linguaggio in sé, non nella poesia che crede di riabilitarli con la retorica. Ed ecco un fatto, e poi la sua parola oggettiva e traumatica: la sera del primo marzo 2013 sono davanti ad uno schermo, che diventa nero, sfarfalla, ritorna normale, poi di nuovo nero, due o tre volte. Sono circa le 22.30. Alle 23 suona il telefono: non riconosco il numero e non rispondo. Alle 13 del giorno dopo il numero ritorna, e rispondo. È l’ex marito di Silvana. Dice: Silvana è morta ieri, alle 22.40. All’ospedale vedrò come si ricompone il cadavere di chi non ha nessuno, né figli né marito né compagno, solo un amico occasionale. Il cappuccio della felpa contiene i capelli, che sono lunghi. Tra le mani c’è una rosa di plastica: Cristo, una rosa di plastica, una porca rosa di plastica rossa. Solo io ho firmato il registro, non è un primato di cui gloriarsi. Fine della trasmissione, addio, non viaggeremo più insieme, Silvana e io. Secondo fatto: si impone Joë Bousquet, e ho tradotto Bousquet. E il terzo fatto è un’abiura: rinnego una parte di lavoro – non per umiltà, perché l’umiltà non ha atti pubblici – e mezzo mondo, letterario e non. Non si fa con leggerezza: semplicemente è necessario. Prima di dire «tutto è santo» o «j’accuse» bisogna essere un po’ più puliti, come minimo. Organizzo un po’ di futuro, almeno quello. Il quarto fatto è vedere la decadenza. Il 2013 ne ha un campionario osceno, ma è indicibile, perché il privato dei privati è privato. Il pubblico no. Ecco un fatto pubblico: appaiono 1800 pagine bianche con un solo scritto, in una sola pagina, sperduto e mostruoso. Conosco l’autore e so che non è un gioco: è l’incubo in cui l’uomo «non si libera dagli aghi, se ne veste». Dai, è una versione poetica della legge del Menga. Intanto il telefono suona e porta notizie brutte, storie di famiglie misere, mariti e mogli, le solite cose; e io alzo molto la voce, ho la verità in tasca e do consigli; mi sento dire «sei un angelo, sei un maestro, sei Mago Merlino», e altre parole gerarchiche. E poi? Troppa miseria danneggia chi la vede, non solo chi la vive. Anzi: chi la vive non ne sa niente, di solito. L’angelo – diciamo così – aveva disimparato a cadere, e stava bene: ma si cade anche per interposta persona, o parola. Poi si torna a casa. Mettiamo sul piatto la Ciaccona di Bach, in mano a Benedetti Michelangeli. Penso alle cose eccellenti. Ormai l’erba cattiva – la corda pazza – è attivata, e non c’è niente da fare. Penso che in Cristina Campo l’origine borghese e classista sia una bella chimera sulla schiena, e si sente nelle pagine: come in Emo, in Zolla, in Buscaroli, nei fratelli Cacciari, nei fratelli Sgarbi e nei fratelli Ferrara. Destra sublime, forse, ma sociopatica; e Destra incompatibile con il resto del mondo, perché si può comprare il mondo. Ora, la differenza sociale tra le eccellenze dello stile – Cristina Campo, Mario Luzi, Lorenzo Calogero (leggete Calogero, Calogero prima di tutti) – è atroce. Alberto Moravia non vale un mignolo di Goliarda Sapienza, tanto per dire. Non è mai – sia chiaro – la stessa letteratura, e non lo è mai stata. Don Milani dice che fare le parti uguali tra diseguali è la cosa più ingiusta della Terra: tutto è compresente, tutto è in tutto, ma tutto è diverso. E questo è l’Occidente, bellezza: qui è il milieu a creare il karma, cioè l’ambiente determina il destino. In Camere separate di Tondelli, Rodolfo e Leo parlano di Thomas, il morto: «Lui non era l’uomo giusto per te. E ti stai dannando proprio su questo errore». Quale errore? «Che lui è morto, Leo. E tu no. Per questo lui non era il ragazzo giusto per te». Thomas era «ben avviato alla carriera di fallito». Amen. «J’ai aimé un porc», ha scritto Rimbaud: ho amato un porco. Oggi, chi frequenta le azioni letterarie vede che i personaggi non ce la fanno più: sono fisicamente – e oralmente – squallidi, e fanno opere minori. Allora le sensazioni diventano una tortura: chi vede, vede troppo, quando vede; e tra l’occhio e l’ambiente c’è sempre un’opposizione, ora. Devo raccogliere tutti i segni, e poi collegarli, naturalmente per la salvezza, quella più normale. Le cose non sono mai state piccole cose. Mai, davvero, neanche una volta. Ed avrei preferito non svelarmi un dato duro, perché è roba da bestie feroci: non agire più sull’opera, ma sull’ambiente. E così agire sul karma.
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