Trento, 2 luglio 2014. – Siamo in via Savona, a Milano. Sul palco del Teatro Libero ci sono una sedia alta, un leggio nero, un microfono con il suo filo. Sul leggio ci devono essere alcuni fogli, ma il pubblico non li vedrà. In ogni caso, non saranno letti. Ogni tanto Corrado d’Elia allungherà una mano per toccarli. Il pubblico è al suo posto, ma una quindicina di persone si siede sul palco, a destra e a sinistra della sedia: dà l’idea di una cerchia più intima, come intorno ad un santo o ad una forza del passato. Probabilmente sono amici o allievi, e stanno bene sul palco. Corrado d’Elia fa un omaggio a Strehler. Ma d’Elia non assomiglia minimamente a Strehler e non fa nulla per creare l’illusione. Sul palco non c’è scenografia. Non saranno proiettate foto. La voce originale di Strehler non apparirà mai. Così nessuno potrà sentire la voce che Carmelo Bene trovò stonata, soprattutto nella lettura delle poesie: la voce del Milite Noto e del Militante Notissimo (ed era vero). D’Elia non si sposta dalla sedia. Conosce i testi di Strehler a memoria e fa capire sùbito che il leggio è simbolico. Quando recita – con esitazioni volute, le tre ripetizioni di una parola, qualche imperfezione controllata anche nella dizione – fa capire una cosa seria: che Strehler è morto e irrecuperabile, come è morta – e irrecuperabile – la Nebbiosa, Milàn. Scerbanenco, Testori, Castellaneta, Brera, Gaber sono morti. Anche Strehler è morto, e per questo è inutile – dal punto di vista di d’Elia – tentare la rappresentazione, cioè un documentario o una specie di seduta spiritica. Meglio di no. Basteranno le parole nude, e il risultato è un pubblico preso come da un miracolo. Perché il miracolo c’è stato, veramente. Si è fatto teatro senza gesti, se non qualche movimento della mano e qualche atteggiamento nel viso. Era il leggendario Teatro Povero, ma attribuito ad un maestro del teatro non povero e ad un Milite Noto, e borghese e politicizzato; non solo: il “teatro povero” di d’Elia rifiutava l’animazione, come se la sedia fosse un’isola troppo piccola per agire in qualche modo. Come se ogni azione fosse enfatica, e quindi evitabile. Perché? Perché non c’era una storia da rappresentare; non c’era proprio nessuna rappresentazione. Funzionava in un modo straordinario, perché d’Elia ha creato un rito. Era la poesia ideale: una sola voce, con il suo carisma giusto; e uno spazio apposito, che si chiama teatro, e in cui il pubblico è separato dall’esecutore; poi c’erano gli spettatori speciali, seduti sul palco, alla distanza dovuta. Sembravano i discepoli di un maestro, dove “il maestro” è – Strehler lo dice, d’Elia lo ripete – l’esecutore consapevole del lavoro. In pratica erano i discepoli del magistero, coinvolti – muti come chi impara – nel rito. Alla fine è stato bello il paradosso, davvero: lo spettacolo onorava più il teatro in sé, vivo e nudo, che il Milite Noto, il morto non disadorno.
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