Trento, 1 gennaio 2014. – È iniziato il 2014. Se fosse l’anno della fine dell’Europa, sareste felici? E anche l’anno della fine dell’euro. Si può? Nessuno lo sa: l’euro divide Draghi da Grillo, Bagnai dal Sole-24 Ore, e Barnard da tutti: perché la divisione delle parole è più di una divisione degli animi. E l’argomento non è quello che appare. Davvero, non è in gioco la moneta in quanto moneta. Si parla di una religione, perché l’euro è un idolo. Proprio di questo si parla, senza sapere di parlarne: è un dio o un idolo? È la Bestia o The Best? E ha senso inchinarsi alla prospettiva europea o no? La domanda «ha senso?» significa una cosa brutale: di che cosa vogliamo morire? Euro morto o euro vivo è come dire Europa morta o Europa viva, ma l’Europa è un’astrazione, quindi si aspetta solo la fine, senza provocarla. E se Napolitano decidesse, decedesse, decadesse? E se il centenario dell’evento che distrusse l’Impero portasse un’altra distruzione? Vi esorto alla profezia, oltre che alla storiografia e ad un sacco di altre cose. Nel 1914 uscirono i Canti orfici di Dino Campana. Uscirono con un sottotitolo nervoso: «La tragedia dell’ultimo Germano in Italia». Fu il nostro Nietzsche, con le giuste sfumature disperate, toscane e al gusto di caffè. Germano si capisce così: l’uomo superiore, da Dante a Segantini, non proprio il Tedesco di Germania. Ma non importa. Anzi: la germanità mistica è ancora più imbarazzante. Ecco, nella solita antologia Mengaldo dice: Campana «era un tramonto che poté sembrare un’alba». Ci mancherebbe altro. Non c’è da crederci e le parole vanno smutandate, come nel Maggio francese, ma questo vale sempre: sono le solite freddezze di chi ha la cattedra certa e lo stipendio sicuro. Tra la sicurezza e l’azione non c’è sintonia. Ora, Campana è insano, ma è salutare. Apre una buona strada, per tutti, grandi e piccoli. È l’esperienza, pratica e mistica, pura e semplice. In Contro uno e contro tutti, anche d’Annunzio lo scrive e lo sa: «Sono documenti di perfetta unità interiore, cioè di stile. Non ho da togliere una parola né da mutare una cadenza. Il mio giudizio degli uomini e delle sorti è confermato. E, se niuno fu mai profeta in patria, io sono in patria profeta. Dell’aver molto parlato ho, davanti a me medesimo, fatto ammenda con l’aver molto operato. Volli la guerra, e la guerra feci senza respiro. Avendo incitato il popolo alla nuova lotta, ho preso nella nuova lotta il posto più pericoloso». L’azione vuole esposizione. Non c’è niente da fare: esposizione alla morte o a quella forma di morte che è la povertà, nel senso di spoliazione. Va bene anche per i ricchi, perché hanno tutto da perdere. E ora c’è da imparare una cosa importante. La letteratura può essere giocata, può essere anche inventata, e può essere duramente LETTERALE. Ripeto: LETTERALE. Se dico che sono l’ultimo dei Germani (spirituali) in Italia, io ci credo. E se ci credo io, tu non dubitarne, oppure non leggermi e cercatene un altro. Non ti obbligo. Se io racconto l’esperienza vera, posso averla colorita e posso averla modificata; ma la racconto, e tu non dubitare. I fatti raccontati sono quelli. Io – dico per dire, io Gabriele, io Dino, e ogni autoevangelista – non sono la verità assoluta, ma la dico, e in modo assoluto. Dire non è essere – un essere generico –, ma è vivere, in una singolarità. La singolarità è lo stile, va bene? E io – io Gabriele, io Dino – vivo la parola che dico. Allora nasce un certo tipo di libro, che non è più il «molto parlato». C’è il libro «molto operato», ancora prima di scriverlo. Se no «ogni concretezza va a farsi in…», parola di Aldo Busi in Un cuore di troppo. Non c’è più storia: letteralmente, sarebbe la fine di tutto. E invece la concretezza esiste. E richiede un atto di fede, né più né meno. Dino voleva essere Orfeo – poeta, profeta, disgraziato, viaggiatore – e io gli credo. Lo so: è come credere a Babbo Natale. Vedi un folle in Piazza della Signoria, ma è Orfeo. I cristiani credono che il «figlio del carpentiere» sia Dio. Gli italiani hanno creduto al «milione di posti di lavoro», e riconoscere letteralmente – e misticamente – Dino Campana è da pazzi? Parafrasando la prima lettera ai Corinzi di Paolo, e senza blasfemia: se Dino non è l’Orfeo italogermano, la nostra fede – letteraria, eroica, vitale, poetica – è vana, perché diventa una simulazione. E io non voglio credere che Dino sia stato un simulatore. E ci credo sulla parola, e «beati quelli che credono senza aver visto», come nel Vangelo di Giovanni. Capite, non c’è mediazione, a certi livelli: o sì o no. Ma il problema è un altro: chi vuole diventare Dino, cioè Di(n)o, un dio, cioè Orfeo? Diventarlo letteralmente, è ovvio: prendere «nella nuova lotta il posto più pericoloso». Solo questo importa. Altrimenti «ogni concretezza» va a farsi inchiodare.
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