Trento, 31 ottobre 2013. – «Scrivo da Lisbona». Sarebbe un bell’inizio. Non è vero, dico ma dico per dire, come nella poesia di Vallejo. Scrivo dove sono. Sarei potuto andare a Lisbona, ma non ci sono andato. Ora c’è il festival del documentario, ed è in concorso un film in cui ho lavorato: Life Span of the Object in Frame di Aleksandr Balagura. Un giorno ne scriverò, perché la partecipazione mi è servita: ho trovato un ruolo, e anche un ruolo assurdo. Non si tratta di arte attoriale, per me: è un’altra cosa, più ironica e vagante. Da un giorno o due era morto l’Ottimismo – Tonino Guerra – e allora improvvisai un po’. Che cosa? Non importa, adesso. Quando uno scrittore si versa – l’ho appena fatto – un bicchiere di Barbancourt Cinque Stelle è un po’ buffo, a dire il vero. Entra nel ruolo: il diverso, il sensibile, l’intenditore di rum haitiano, e il privilegiato, perché lavora in casa; cose che càpitano, ma alla fine dei conti il ruolo non è cultura. Il ruolo è una maschera, poi il giorno finisce e l’abito da morto-vivente si toglie, e ci mancherebbe altro. Per questo si alterna la grande serietà alla grande ironia: lo sfilacciamento dei nessi, anche logici, e la liberazione dei segni dal contenuto; prima, la festa dei sensi smonta la palude; poi la festa deve diventare il carnevale degli insensati, e per fortuna. Non si può passare la vita a discutere di Prénom: Carmen, con l’ambizione di capire; è e non è un capolavoro, e quella vecchia faccia di matto di Godard è troppo parodica – parodia di se stessa, parodia del Grande Regista creatore di Stile – per essere presa sul serio. Lo «zio Jean» sembra un vecchio scemo, e quando accarezza Maruschka Detmers è solo un maschio in astinenza, non il padreterno. E poi Godard è un Sagittario, capite: non può essere serio al 100%. Poi ci sono le furbate, come La bocca del lupo di Pietro Marcello. Un film stilizzato – dove le parti deboli sono proprio le simulazioni di documentario – che sfrutta codici della poesia, compresi i pensieri sugli «abitanti delle caverne». La storia fa colpo, è chiaro: l’amore di un ex delinquente e di un transessuale, prima e dopo il carcere. Le citazioni e gli intarsi sono continui, peggio di Godard e dei Dreamers di Bertolucci, e la storia – esilissima – spacca il cuore. Insomma: il film agisce su una sensibilità precisa, ma si basa su un equivoco: il regista che firma (per convenzione culturale e per padronanza della Macchina) è Pietro Marcello, ma i veri registi – della vita, delle situazioni, dell’ambiente, delle cassette con le voci registrate – sono Enzo e Mary. Per una volta, il mostruoso detto «artigiano, non artista» è detto bene. Pietro è stato solo un artigiano e il film è – anche – un capolavoro, sì. Ma chi era su quel set non ha visto la grazia: ha visto che Enzo è stato raccolto e salvato, ne è stato fatto un attore, e ora Enzo non può tornare a vendere le angurie in Piazza Fossatello. Sul set è stato grandissimo, ma non era un attore: era Enzo e basta, come Mary era Mary. Per lui, oggi, l’unico film possibile sarebbe il presente nudo e crudo di un uomo troppo umano, dopo la Bocca del lupo: cioè avrebbe bisogno di un Warhol che lo filmasse per tutta la vita, come in The Truman Show. E ne verrebbe fuori un prodottino elitario, ma forse no: sarebbe il carisma coatto di Enzo a dare la tinta buona, non certo il regista, che è troppo intellettuale – è un regista –, fin dal momento in cui accende la macchina. Così, tra Gesuiti e Feltrinelli, hanno salvato Enzo per un po’, e l’hanno anche illuso; Mary è morta quasi sùbito; l’equilibrio vitale si è rotto; e poi? Pietro è ripartito, in fondo non amava Genova – e lo diceva – e non ci tornerà. Enzo rimane: non diventa Clint Eastwood (lui ci credeva), ma nemmeno Ninetto Davoli. Se il mentore muore, ti lascia un curriculum, e puoi proseguire, forse (se sei Ninetto, e hai il piccolo-grande carisma di chi può andare avanti; se sei Franco Merli, no); se il mentore ti lascia perdere, vivo lui e vivo tu, la storia è finita. Tra Pietro, il regista dell’opera, ed Enzo, il regista della vita, ha vinto il regista dell’opera: si è accreditato e ha vinto premi. Ma il regista della vita – perso nel mondo, anche troppo – è adorabile: lo è sempre, anche quando ti grida in faccia «Ombraaa! Sei la mia ombraaa!». Pietro no, perché è un intellettuale armato del solito pacco còlto, anche quando parla in napoletano («Te faccio diventa’ ‘nu grande attore!»: ma non poteva farlo, e la stessa impotenza è un segno certo di intellettualità); Enzo ha portato armi sul serio, armi vere, e ora è disarmato. Bene, chi vince è il secondo, anche se perde: anche se è nel limbo, tra il Paradiso (un cinema totalmente intellettuale – e non proletario – che l’ha masticato e sputato fuori) e l’Inferno sottoproletario (il carretto delle angurie di Baffo, ormai epica pura). Ha vinto anche se ha perso. Perché? Perché Pietro è debole, ma Enzo è fragile. E perché mi suona bene e lo decido io, punto e basta: Enzo vince perdendo, come Brunetto Latini nella corsa infernale, in cui Dante lo inchioda una volta per sempre.
]]>