Trento, 10 giugno 2014. – Massimo Sannelli Lia è la compagna di Viktor, un professionista sadico, elegante e glaciale: come l’appartamento in cui convivono. Dopo un aborto, Lia tenta il suicidio, ma Viktor la salva. Ora fugge in Veneto, dove abita la zia, vedova del “guaritore cileno” e guaritrice a sua volta. La casa della zia è l’esatto contrario dell’altra, e anche Lia cambia aspetto, automaticamente: il caldo contro il freddo, i capelli sciolti contro i capelli legati. Non ci sarà veramente un lieto fine; o meglio: non è quello che uno si aspetta fino a cinque minuti prima. C’è un filo di violenza, per contrappasso. Questa è la trama di Ritual di Giulia Brazzale e Luca Immesi. Anche se la trama non è fondamentale, nonostante tutto. Il punto forte è l’ispirazione di Alejandro Jodorowsky. Oggi Jodorowsky è arrivato al punto glorioso o carismatico in cui non si è più attori: si è e basta, quindi Jodorowsky è Jodorowsky e basta. Per questo interpreta se stesso in Niente è come sembra di Battiato, e ora è il “guaritore cileno” in Ritual: è se stesso, sempre, e se lo può permettere. In fondo, la psicomagia è lui. E la psicomagia è proprio il pezzo forte del film: non la storia in sé, ma i sogni e i riti, cioè tutto l’inspiegabile, che appare senza perché. La parte narrativa ha un limite di profondità: se l’inspiegabile accade senza perché – ed è bello che sia così –, tutto lo spiegabile non viene spiegato. Per esempio, non si capisce perché Viktor sia così violento e perché Lia lo ami, nonostante tutto, perché Viktor sia venuto in Italia, ecc. In questo modo, in questo mondo, tutto sta su un piano immediato. Semplicemente, i motivi ci sono ma non appaiono, come in un film simile, Primo amore di Matteo Garrone, dove la mania dell’orafo è inspiegabile e inspiegata: lì, alla durezza di Vitaliano Trevisan corrisponde una Michela Cescon – allieva di Ronconi, e si vede – che può tutto. In Ritual c’è Désirée Giorgetti – diplomata alla Silvio D’Amico – che è miracolosa, veramente. In entrambi i casi, vince una formazione teatrale dura. E il miracolo attoriale è sempre questo: agire e darsi uno stile, anche quando la direzione degli attori è meno dura della formazione che questi attori hanno avuto. Non è che in Ritual manchi la regìa, ma si sente sùbito un nodo: è una regìa impegnata a raccontare la storia, e poi ad inventare particolari, come nelle inquadrature dei piedi, nudi o calzati. Invece i punti più validi del film non sono quelli narrativi, e nemmeno quelli geometrici ed estetici. No, qui vince la psicomagia, cioè Jodorowsky. E il meglio di Ritual è la rappresentazione dei riti, dei sogni e degli spiriti. Perché è il meglio? Perché i riti e gli spiriti sono tanto paradossali che è inutile spiegarli: sono inspiegabili di per sé, quindi non si sente la mancanza della spiegazione. Certo, la storia di Lia, in sé, rimane importante, ma Greenaway ha già detto che il cinema è una cosa troppo forte per lasciarla agli storytellers. È più bello rappresentare l’inspiegabile – complicare, decorare, apparire – che narrare lo spiegabile. In effetti, il difficile è proprio rappresentare lo spiegabile, per tutti. E così Ritual è grande quando rappresenta il mistero: i sogni, gli spiriti, i riti. E poi quando mostra la coppia – eccezionale – dei bambini-folletti, che parlano in versi come se fosse la cosa più normale del mondo.
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