Trento, 1 aprile 2012. – Riprendiamo un articolo di qualche giorno fa, pubblicato da Trentino Wine Blog. E’ uno spaccato molto ben descritto dell’ingerenza della politica trentina nella società e nell’economia, a cominciare dalla scoperta vocazione cimematografica della Provincia autonoma di Trento che nel cinema ha investito, non soltanto in questa occasione, quella del Vinatily, un sacco di quattrini. Ecco quindi ciò che scrive Cosimo Piovasco di Rondò BB. Seconda e ultima giornata a spasso per Vinitaly, quella di ieri. Almeno per Cosimo: perché due intere giornate veronesi, anche per quelli che di parole attorno al vino ci campano, sono fin troppe. E anche troppo faticose. Ma bastano, e avanzano, per cogliere un clima e qualche suggestione. Insomma per capire qualcosa di quello che accadrà durante l’anno. Provo a raccontare qualcosa di ieri e procedo per flash. Cinematografari di regime. La disperata idea del filmone sul Marzemino (protagonista annunciata Giovanna Mezzogiorno) che la Provincia Autonoma di Trento ha deciso di finanziare con 300 mila euro (per ora), e che ha già la velleità di arrivare dritto al Festival di Berlino (il progetto, che è già quasi realtà, era stato illustrato in apertura della mitica conferenza stampa di lunedì), lascia tutti interdetti. Del resto, questo capolavoro annunciato dovrebbe narrare la storia improbabile di uno winemaker di successo che costruisce la sua fortuna, internazionale, partendo dal Marzemino (la cui produzione non supera il 3% del vino prodotto in Trentino). La trama non promette niente di buono. E l’idea di fondo nemmeno: la grande illusione parkerista è al tramonto. L’idea e la comunicazione del vino, oggi, passano per altre suggestioni. Qualcuno dovrebbe spiegare agli strateghi del Mella che la Grande Favola degli anni Novanta è finita. O sta per finire. Comunque passiamo alle reazioni. Negli stand trentini, quando gliene parli – ma spesso sono loro a parlartene ancora prima che tu apra bocca -, i produttori prima ridono, poi si incazzano al limite della bestemmia. Il meno che ti possa capitare è un vaffanculo. Indirizzato ai cinematografari di regime. Non a te. Ma insomma, un vaffanculo è sempre un vaffanculo. Ed è sempre un’espressione molto descrittiva. E comunicativa. Non ne trovo uno, non dico entusiasta ma almeno moderatamente attendista. Uno di loro, uno giovane e piuttosto spigliato, commenta così: “Se la cosa fosse seria, avrebbero dovuto finanziare un documentario di qualità sui produttori. Invece hanno preferito la fiction. I documentari cercano di rappresentare la realtà, mentre la fiction crea e consolida un’egemonia. Se provassero a raccontare le nostre storie e le nostre facce, rischierebbero di far emergere un mondo e uno stile di vita, ma soprattutto un modello di viticoltura, che sta agli antipodi rispetto a quello interpretato e propagandato dall’establishment cooperativo e a quello promo-parkerizzato di Trentino Marketing. Per questo si sono buttati sulla fiction cinematografica. Per consolidare una visione sacralizzata, ma obsoleta, del potere. Vogliono affermare forzatamente la loro egemonia culturale per ricondurci tutti sotto il loro cappello”. Sembra di leggere Gramsci. Eppure chi sta parlando è un modesto, e moderato, agricoltore di montagna. Che forse ha letto i Quaderni dal carcere. E infatti il ragionamento è serio. L’idea del film e dei testimonial di successo (e ti chiedi sempre più insistentemente chi sia il grande suggeritore del Mella, questo Grande Vecchio dalla fervida e sfrenata fantasia partorito da qualche Cronaca Marziana), è qualcosa di surreale. Il mondo del vino trentino non fa più rima con vino, i piani di rilancio languono nei cassetti perché oggettivamente, stando così le cose, è difficile trovare la strada per uscire da questo ginepraio in cui si mescolano economia, politica, gestione del consenso (elettorale e non) e modelli di sviluppo che non reggono più. La Doc trentina non seduce più nemmeno i consumatori degli hard discount. La recente ProWein, purtroppo, lo ha drammaticamente dimostrato. Tanto che di ritorno da Düsseldorf, parecchi produttori mi hanno confidato di voler mollare la Doc, per affidarsi alla Igt Dolomiti. Di fronte a tutto questo, come per un riflesso condizionato, il regime cerca di spostare l’attenzione altrove. In un altrove hollywoodiano. Anzi no, berlinese. Ma Berlino fa solo rima con Trentino (e con Marzemino). Per il resto è tutta un’altra storia. Anche questa, è una di quelle cose che sarebbe bene far sapere al Mella. Chi gli vuole bene, ma bene davvero, cerchi di spiegarglielo. Anche a costo di usare i disegnini. Rompiamo tutto. Brevissima ma fertilissima chiacchierata con un comunicatore istituzionale della Pat. Off the record, chiaramente. Gli offro una sigaretta e ci spostiamo due passi più in là, all’ingresso posteriore del padiglione che ospita le architetture faraoniche di Trentodoc. Lui toglie la divisa d’ordinanza del Minculpop trentino – e sembra che non veda l’ora di farlo – e si sfoga: “Quelli di quel famigerato Black Blog (siamo noi, ma lui non lo sa, ndr) hanno non una, ma cento, mille ragioni. Qui c’è qualcosa che non va. E non dipende da noi comunicatori. E’ un problema che sta a monte. Nella politica. Come facciamo noi a fare un buon lavoro se siamo costretti a comunicare qualcosa che non c’è? Una sintesi e una visione inesistenti? Ti faccio un esempio. Cosa racconto io ai giornalisti internazionali e agli opinion maker del vino, se alla Mostra del Vino del Buonconsiglio, non ci sono i vignaioli. Posso mica raccontare la storia di Rappo e di Ercolino. Per non parlare della telenovela del marchio Trentodoc, che non si sa cosa sia, di chi sia, e chi lo possa usare. Me lo spieghi tu, cosa cazzo posso raccontare, come posso seriamente immaginare una comunicazione credibile, senza farmi ridere dietro da tutti? Hanno ragione quelli che in questo momento auspicano che tutto questo castello di carta cada a pezzi. Speriamo che si rompa tutto. Io accendo un cero alla madonna tutte le sere. Solo così si può sperare di ricominciare. E di ricostruire”. Ohibò, abbiamo trovato un altro Cosimo. Gli proporremo una collaborazione. Troppe cravatte. Passo davanti allo stand di un bravo artigiano del vino (più volte tre bicchieri). Uno di quelli che stanno facendo anche un po’ di casino sul Trentodoc. Intercetto una sua conversazione con un cliente: “Qui girano troppe cravatte, troppa gente in doppio petto. Più che davanti ad un vignaiolo, il visitatore e il buyer internazionale hanno la sensazione di entrare in banca”. Del resto gli è capitata la sfiga di allestire il suo banchetto nei paraggi delle cattedrali di CàVit, di MezzaCorona, di Ferrari. L’ideologia dei faraoni impera e le cravatte non possono mancare. E’ l’estetica del vino in doppio petto sposata, anche di recente, da La-Vis. Che difatti sta anch’essa lì, dalle parti del nostro vignaiolo-trebicchieri-incazzato. E si capisce perché sia incazzato. Perché fra le cattedrali cooperative, e non solo cooperative, l’ultima cosa che ti viene da pensare è che la bottiglia che ti sta davanti sia un prodotto della terra. Piuttosto hai la sensazione di una merce virtualizzata e di un artificio bancario. Abbasso le cravatte. E abbasso pure le cattedrali. L’amico di tutti. Intravedo da lontano l’assessore Mellarini, ancora stampellato a causa del drammatico incidente sugli sci, che qualche settimana fa rischiò di costargli la vita; accompagnato devotamente, come sempre, dal suo segretario particolare. Bello come il sole. Abbronzato. Camicia leggermente sbottonata. Ma soprattutto sorridente. E ottimista. E disinvolto. Lo sguardo assassino da italiano in spiaggia. Sembra un maschio sempre sul punto di acchiappare. Per ora si tiene lontano dagli abbaglianti luccichii dello stand faraonico. Lo seguo, ma mi tengo prudentemente a distanza. Sta facendo il giro dei vignaioli, come una madonna pellegrina. Io mi tengo sempre a debita distanza. Prima passa lui, poi passo io. Mi raccontano, tutti, che sta cercando di rassicurarli. Di convincerli. Di tenerli buoni. Fa l’amicone. Baci e abbracci. Del resto l’uomo, se lo conosci bene, è proprio così: una pacca sulla spalla e via. Siamo tutti amici, siamo tutti sulla stessa barca. Diamoci una mano. Il mantra è sempre lo stesso: “Stiamo lavorando, i saggi ormai hanno concluso il loro lavoro. C’è ancora da sistemare qualcosa sul piano promozionale. Ma il grosso è fatto. Fidatevi”. Prova anche a convincere chi sta ancora fuori dal marchio Trentodoc, ad entrarci. Lo fa con il sorriso ammiccante stampato in faccia, come dire: “Dai su, almeno fallo per me, anche se non ci credi. Del resto siamo o non siamo amici da sempre. Poi ci vediamo a cena la prossima settimana. Ci vediamo, dai. Ti telefono io. Ma mi raccomando eh, il marchio. Mi raccomando”. Poi passa al prossimo. Intanto io arrivo a quello precedente. E i vaffanculo me li becco tutti io. Incontri. A Vinitaly si fanno sempre incontri piuttosto interessanti. Tanti. Alla fine torni a casa con le tasche piene di bigliettini da visita e una giostra di facce e di belle storie da farti girare la testa. I vignaioli, soprattutto loro, sono i pazienti testimoni di un mondo romantico che anche dopo tanti anni continua a sedurmi. Irrimediabilmente. Per non far torto ad alcuno, almeno qui, non parlerò di loro. Nemmeno di quelli che anche ieri mi hanno regalato attimi di un’emozione che aveva l’odore della verità. Invece vi racconto di tre persone che con il mondo del vino hanno a che fare solo lateralmente. Un pubblicitario e giornalista (di cui non faccio il nome, ma se vi interessa posso fornivi il contatto privatamente) di origine sarda che però vive a Genova. Mi ha fatto una bellissima impressione; una persona affabile, informata. Creativa. Curiosa. L’incontro è stato casuale, in sala stampa. Poi abbiamo passeggiato un po’ fra un padiglione e l’altro. Mi ha raccontato della sua esperienza deludente con il Trentino del vino. Quello delle istituzioni, s’intende. Qualche tempo fa aveva messo in piedi un progettino “da due soldi” pensato per comunicare l’immagine del Trentino a New York. Ma non è mai riuscito ad andare oltre l’anticamera dell’assessore. Né oltre le cortesi ma irremovibili segreterie di Trentino Marketing. Qualcuno, per scoraggiarlo o per aiutarlo ad aprire gli occhi, gli ha perfino detto che “da qui in avanti il mondo del vino trentino avrebbe cercato di affidarsi esclusivamente a professionisti locali”. Perbacco, allora il nuovo establishment di La-Vis – e quello di Trentodoc -, devono essere stati errori di percorso. Giusto per prendere la mira. Sta di fatto che nessuno ha voluto prendere in considerazione il suo progetto. Forse costava troppo poco. Gli suggerisco di alzare il prezzo. E di molto. Solo così avrà qualche possibilità di farsi ricevere, e magari ascoltare, dagli Obama del marketing pubbli-istituzionale trentino. Mauro Fermariello. Lo incontro nello stand di Baffo Pojer. Lo riconosco subito: è un tipo pelato con il treppiede sempre appresso. La definizione è sua. E’ un fotografo professionista con una lunga storia alle spalle. Un reportagista che in passato ha lavorato per grandi testate internazionali. Da un anno a questa parte si è innamorato dell’umanità (nel senso di uomini e donne) del vino (di cui, per sua ammissione, non ne capisce un acca; ma questo credo sia il suo vantaggio: perché gli consente di guardare a questo mondo senza pregiudizi e senza veli). E questa varia umanità delle campagne italiane la fotografa. E’ bravissimo. Visitare il suo sito (winestories.it) per credere. E ‘un uomo poetico. Mi ricorda Erri De Luca. Come lui è napoletano ma ama le Alpi: “Tu non sai come mi trovo bene fra voi trentini”, mi confida. Lo guardo perplesso, ma gli credo. Ha gli stessi modi gentili di Erri. E la sua stessa immediatezza comunicativa, che passa per la categoria della semplicità. L’occhio – fotografico – è lucido e preciso. Lontano dalla retorica e dalla plastica velinara dei tantissimi venditori di immagini che purtroppo abbiamo conosciuto in questi anni. Sa andare subito al cuore e all’anima delle cose. E poi è amico del Baffo di Faedo. E, se ce ne fosse bisogno, questa è una garanzia. Ma soprattutto ha un modo di lavorare ormai raro da incontrare: non fa marchette. Quelle le lascia fare agli altri. E fa bene: “Riprendo solo le cose che mi piacciono e le pubblico. Se poi a qualcuno il mio lavoro piace, se lo compra”. Bello. E’ un professionista sinceramente innamorato del suo lavoro. E del suo treppiede. A prescindere. E non è poco. Anzi è tanto. Gianfranco Chiomento: Non lo vedevo in giro da un sacco di tempo. Ieri lo ho incontrato nei paraggi dell’Istituto della Grappa Trentina. Gli anni passano per tutti. E si vede. Del resto Cosimo era ancora un moccioso con i pantaloncini corti, quando lui già entrava nelle case di tutti i trentini dagli schermi di TVA. Un pioniere del giornalismo televisivo delle reti libere. Bello incontrarlo qui. Vivace, spiritoso e intelligente come allora. Quasi mi emoziono. Con la stessa disinvoltura di allora porta ancora la sua splendida chioma fluente, ormai canuta, che gli lambisce le spalle. Elegante. Come sempre. Un bell’incontro, anche questo. Mi parla di grappa. E di Trentino “dove sono poche le cose che sappiamo fare bene. Perché la nostra è una tavola, e una terra, povera. Ma la grappa, quella sì. La grappa sì. Non so dire se sia la più buona del mondo. Dico solo che è diversa. E unica”. Giusto. Grazie Gianfranco. Per la grappa. Ma anche per tutto il resto. Che tu sai. Vivit: il vino senza veli e senza veline. Non so se quelli con la cravatta, assessori compresi, abbiano fatto un giro a Vivit, la zona (A2) che da quest’anno ospita i produttori biologico-naturali. Se non lo hanno fatto, si sono persi qualcosa. Se lo hanno fatto, speriamo almeno abbiano imparata la lezione. E, magari, provino a metterla in pratica. Anche per le produzioni tradizionali. L’ingresso è contingentato. Un po’ perché la gente interessata a questo segmento è davvero tantissima. Un po’ perché lo spazio che l’Ente Fiera ha riservato a questi artigiani un po’ pazzoidi e un po’ sgarruppati è ancora piuttosto angusto. Ma non importa. Si entra a gruppi di quattro, cinque alla volta. E a ciascuno viene consegnato un bicchiere che dovrà essere restituito all’uscita. Ti guardi intono e tiri un sospiro di sollievo: almeno qui non ci sono in giro né veline né hostess ad importunarti e ad ammiccarti. All’interno, disposti in modo ordinatissimo, gli stand dei singoli produttori. Un centinaio. E non solo italiani. Il banchetto è uguale per tutti. Alle spalle, un pannello bianco e marrone che riporta la scritta dell’azienda. Davanti, un tavolo di un metro per un metro su cui sono disposte le bottiglie. In mezzo il produttore, in maniche di camicia e senza cravatta, che ci mette la faccia. E si racconta. Tutti estremamente gentili. La sensazione è quella finalmente rilassata della sobrietà verace. Faccio un giro fra i trentini. Non sono molti. Saluto da lontano il Vignaiolo Fanti, vorrei scambiare due parole con Elisabetta Foradori. Ma è troppo impegnata. Davanti alla sua postazione (un metro per un metro) c’è il mondo intero. Ma davvero il mondo intero. Segno che questo stile paga e ripaga. E che per comunicare un’idea, le architetture faraoniche non servono. Anzi, forse fanno più male che bene. Mi fermo un attimo da Marco Zani di Castel Noarna. Anche lui è impegnato con un po’ di gente. Ma trova un attimo anche per me. Lo vedo contento, le maniche tirate su. Il ciuffo spettinato. Gli occhi guizzanti. Mi sembra contento. Finalmente a suo agio, fra gente come lui. Gente che crede in quello che sta facendo e che si è rotta le palle del vino in doppiopetto e dell’ipertrofia delle parole e della promozione che soffoca il vino e le bottiglie. Assaggio il suo “Sol”. Un Sauvignon barricato, coltivato e vinificato con metodi naturali, su cui avevo messo la bocca lo scorso autunno. Quando era appena stato imbottigliato. E il legno era ancora troppo invadente. Almeno all’inizio. Poi, parlo sempre di ottobre, dopo averlo lasciato riposare un poco nel bicchiere, invece, era esploso in una potente vampata minerale, che mi aveva sorpreso. Quasi ipnotizzato. Mi era piaciuto ma, come dire, mi era sembrato un vino estremo. A tratti estremizzato. Un vino difficile. Non per tutti. Ieri, invece, ne ho avuta tutt’altra sensazione. Quella di un vino adulto, che ha trovato il senso della sua maturità. Al naso e anche in bocca. Un Sauvignon trentino, ora sì, per tutti. E soprattutto un vino naturale che, finalmente, non ha niente, ma proprio niente, da invidiare alle bottiglie tradizionali. E per me, questa, quella dei vini naturali – vedremo più in là se e come e quando chiamarli biologici – è stata una bella scoperta. Su cui forse, solo uno o due anni fa, non avrei scommesso. Per fortuna mi sbagliavo. Ed è sempre bello ricredersi. Ps: Occazzo, dovevano essere due flash e invece ne è uscito uno dei post più lunghi della storia di questo blog… Chiedo scusa ai pochi lettori che sono riusciti ad arrivare fin qui. Ma in fondo si tratta di Vinitaly, che resta pur sempre uno degli eno-eventi internazionali più importanti dell’anno per chi si occupa di vino.
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